Babbillumpa

 

Ci sono, nella vita, dei momenti epifanici, degli attimi che segnano un cambiamento radicale, stravolgendo per sempre la consapevolezza di noi stessi e dell’alterità. Uno dei più comuni, per i bambini messinesi, è la scoperta della polivalenza del termine “babbo”. Una parola che impariamo a pronunciare sin da piccoli, associandola alla stupidaggine, che ad altre latitudini, come è noto, viene utilizzata come sinonimo di papà. Apriti cielo. Com’è possibile che la stessa identica combinazione di lettere indichi due referenti tanto diversi, generando il più delle volte equivoci paradossali? Da una parte una forma tipica del primissimo linguaggio infantile post lallazione, come scrive l’Accademia della Crusca, dall’altra il suo opposto semantico: affetto contro denigrazione, familiarità contro disprezzo.

Derivante da babbeo, il messinese “babbo”, utilizzato in varie parti del sud Italia, è un lessema talmente radicato nel dialetto nostrano da generare un’infinità di parole derivate. Oltre alle varie “intensità” del termine (menzu babbu, babbigno, tuttu babbu, babbu ca scoccia, babbu casa casa), hanno origine da babbo anche un sostantivo (babbaria), un verbo (babbiare), e un lungo elenco di aggettivi fra i più disparati.

Uno dei più belli ed evocativi è senza dubbio babbillumpa (babbu i l’Unpa), le cui origini storiche rimandano agli anni ’30 del Secolo Breve. Non tutti sanno, infatti, che l’Unione nazionale protezione antiaerea, in acronimo Unpa, era un’organizzazione della protezione civile istituita il 31 agosto 1934. Uno dei suoi scopi, svolto per lo più da persone anziane o esentati a vario titolo dal servizio militare, era quello di osservare il cielo e di segnalare il passaggio di velivoli nemici. L’insulto nasce proprio da lì: dal ricordo collettivo e indelebile di una frotta di muccalapuni che con aria inebetita guardavano passare gli aeroplani.

 

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Giuseppe Carcione
27 Luglio 2017 18:44

Bastasu e babbannacchiu!