Dedichiamo la trentacinquesima puntata di questa rubrica (le altre sono qui) a una figlia autentica della città. Sebbene Jolanda Insana appartenga, sia per prossimità cronologica che per raffinata ricerca intellettuale, alla modernità, fra le figure più rilevanti del panorama culturale italiano rappresenta una di quelle meno esplorate e studiate e, spiacevolmente, troppo spesso dimenticate.

Nata a Messina il 18 maggio 1937, della sua vita sono rese note solo scarne informazioni: una formazione scolastica e universitaria, che avviene in riva allo Stretto dove, nel 1960, consegue la laurea in filologia classica, con una tesi su La Conocchia della poetessa greca Erinna, e un dottorato di ricerca, nello stesso ambito. Terminati gli studi, dopo pochi anni, si trasferisce a Roma ed intraprende l’attività, portata avanti poi per tutta la vita, di insegnante di lettere in vari licei e di appassionata e scrupolosa traduttrice di classici.  Ma ciò che sconvolge l’apparente ordinarietà di quest’esistenza è proprio l’irruzione della poesia. Non più soltanto fruita, interpretata e tradotta, bensì plasmata a partire da un nuovo lessico, sperimentale e ardito, che Insana costruisce sapientemente fin dalla primissima raccolta poetica dall’emblematico titolo di Sciarra amara. L’antologia avrà subito fortuna e sarà pubblicata nel 1977 nella collana «Quaderno collettivo della Fenice» da Guanda.  Si tratta di un esordio di grande impatto, fortemente voluto da Giovanni Raboni, cui va il merito di averne svelato il talento, scommettendo dal punto di vista editoriale sulla sua dirompenza. Appaiono da subito, infatti, aspramente delineati i caratteri peculiari di una poetica matura, strutturata, erudita ma non accademica o seriosa, dove l’italiano scomposto nei suoi tanti linguaggi, fra arcaismi, tecnicismi, gerghi più disparati, incontra il dialetto siciliano, la sua istrionica espressività, l’immediatezza efficace.

L’interesse di Insana per le parole le è inevitabile, come ammetterà in varie interviste, spiegando lo studio dietro alla spiccata capacità mimetica evidente nei suoi componimenti, che le permette di indagare registri linguistici estremamente differenti, penetrandone il microcosmo culturale di provenienza e restituendo al lettore un’esperienza letteraria trasversalmente accessibile. “Le parole sono biologiche” affermerà, adducendo la preminenza dei fonemi sulla semantica, poiché il significato deriverebbe dall’inevitabile primigenia necessità di articolare un verso, un suono, una rudimentale primitiva comunicazione. I pensieri, dunque, discenderebbero da questo “guaire” d’animale che si è fatto convenzione e solo dopo, senso, poiché “quando non ci sono cose non ci sono parole”. E il recupero dell’oralità è proprio uno dei tratti salienti del suo poetare, testimoniato dalle stesse letture pubbliche, in cui non di rado i termini venivano rimaneggiati con svariati effetti drammatici, pur mantenendo intatto il messaggio complessivo.

La forma diviene sostanziale, i suoni scoscesi, difficili da pronunciare, doppiano significati non meno ostici, veementi, che aprono il sipario sul tema-cardine della grande Messinscena fra Vita e Morte, collocata all’interno dell’umile cornice di legno di un teatrino di pupi. È famoso a tal riguardo l’originale incipit di Pupara sono, poesia-manifesto di Sciarra amara, da cui apprendiamo che i principi fondanti dell’universo finora conosciuto non sono altro che due pupi, impegnati in un incessante duello sul palcoscenico deserto dell’intimo teatrino che Insana si fa da sé. Vita e Morte contendono, ma cosa se non sé stesse, scacciandosi a vicenda e nutrendosi l’una dell’altra? Le invettive scurrili che si scagliano in un crescendo di battute scabrose e ritmo sincopato ricordano proprio l’opera dei pupi, le declamazioni incalzanti del puparo, accompagnate da scalpiccio di tacchetti, legni della scena che scricchiolano, sferragliare di armature, a dirci che “non finiremo mai di fare/ sciarra amara/ nessun compare ci metterà/ la buona parola”.

Questa la poesia integrale:

pupara sono
e faccio teatrino con due soli pupi
lei e lei
lei si chiama vita
e lei si chiama morte
la prima lei percosìdire ha i coglioni
la seconda è una fessicella
e quando avviene che compenetrazione succede
la vita muore addirittura di piacere.
ma chi ti fotte e pensa
troia d’una porca
tutta incrugnata sulla vita
venni per accattare vita
come m’ha fottuto
il banditore
finta che non mi vede
bastò un rovescio di mano
e addio pane e piacere
lo stretto necessario
per campare
per non dare sazio a quella rompina
rompigliona rompiculo d’una morte
la vita se ne va
con gli occhi aperti
faccia di sticchiozuccherato
non aspettarti gioie
da minchiapassoluta
non finiremo mai di fare
sciarra amara
nessun compare ci metterà
la buona parola
tu stuti le candele
che io allumo
padella non tinge padella
ma la mia è forata
e cola vita
la vita ha profumo di vita
così dolce
che scolla i santi
dalla croce
scippa fracassa
scafazza e scrocchia
torna e vuole conto
e ragione
la morte
come le santocchie
ama dio e fotte il prossimo
la vita e la morte allato vanno
transeunti per lo stesso porticato
comincia dolcechiaro finisce amaroscuro
i piedi reggono esattamente
quanto io ho levati
non mi fare il solletico
vita bella e affatturata
non avea catene al collo
né debito di coscienza
dopo la sua porcapedàta
non sa più spendersi
con chi le pare e piace.

Analogamente a quanto è stato possibile apprezzare nella prosa di Stefano D’Arrigo, la compenetrazione fra italiano e dialetto fa proliferare termini inventati ed aggiunge spessore ai piani di lettura, caratterizzando la ricerca stilistica nelle antologie successive.

Fra gli anni ’80 e i primi 2000 Insana sperimenta soluzioni originali, impreviste. Scrive poemetti, epigrammi, filastrocche, litanie, esplicita termini volgari, utilizza imprecazioni, maledizioni, offese, ma sa anche rovesciare l’inforcata dell’accusa in goliardia, a sottolineare i dettagli più tragicomici, grotteschi e comuni della vita. Sono gli anni di Lessicorìo ovvero Lessicòrio, Fendenti fonici, La clausura, Medicina carnale, La stortura, per la quale vince il premio Viareggio nel 2002, inaugurando una felice collaborazione con Garzanti.

La poetessa qui, parla di sé stessa, ma non con intenti autobiografici bensì definendosi “fattore” di poesia, descrivendo cioè la funzione letteraria e di rimando, sociale, del poeta. Per Insana, il “poeta”, dal greco “poietès”, è innanzitutto colui che fa, che crea, che trae significati dalla materia inerte, manipolando le parole con la stessa presa che si ha sul mondo e sui suoi oggetti. La sua è una forma moderna di verismo, in cui ad essere pienamente calato nella realtà non è il soggetto di un brano o meglio, non solo, ma ogni singola parola utilizzata per costruirlo letterariamente. Senza intermediazione il poeta denuncia la realtà nei suoi aspetti più miseri e imbarazzanti, facendo del vaglio dei fatti nuovo terreno di investigazione e scontro, non potendo prescindere dalla sua dose di colpevole verità. Scrive a riguardo proprio in Fendenti fonici: “quand’è il caso, mi calo la visiera. E do coltellate di bellezza”.

Quest’idea di bellezza intimamente ricollegata al vero restituisce alla poesia vocazione civile e le narrazioni più insolite e apparentemente lontane dalla sfera politica, si rivelano essere quelle che meglio la definiscono, come luogo di interazione di corpi e bisogni, dove l’infermità e la “stortura” appunto, si manifestano nella propria irrimediabilità.

In questo contesto la poetessa ricorda Messina, i bombardamenti del ’41-’43, la devastazione del territorio, il riparo a Monforte S. Giorgio, paese di provenienza della famiglia, dove subisce e osserva trasfigurati sui volti della gente ristrettezze, penuria, il freddo implacabile degli inverni nevosi. I luoghi e le persone vanno in contro alle stesse rovine e lo sfacelo di case e palazzi dialoga con quello dei corpi martoriati. Le origini messinesi ritornano preponderanti anche negli ultimi anni, a cominciare da La tagliola del disamore dove il dolore privato per la perdita della madre viene sublimato in esercizio “di disamore”, poiché non vi è altro modo per affrontare l’insondabile mancanza se non riformulare ancora il rapporto con “morte fottuta”, toglierle dominio sui ricordi.

La lunga enumerazione delle azioni che la madre “non farà più” equipara scelte sentimentali e morali come “perdonare” o “amare il prossimo” a dimessi gesti quotidiani, quali recuperare in mare la paletta di un bambino strappata dall’onda o preparare la cotognata in casa “per caliarla al sole sul balcone di Gravitelli”. Questa cesura di immagini e significati ridimensiona la violenza del distacco, integra il lutto alla vita, sia etica che materiale, ricopre di nuove ritualità la memoria. Memoria che rimarrà centrale fino all’ultimo, sempre più corale, intima e comunitaria: la memoria della Messina smembrata post 1908 e dai bombardamenti e quella ancora più estesa della terra, della dimensione socio-culturale-politica dell’uomo, come in Cronologia delle lesioni.

I temi che segnano il suo commiato sono proprio la distruzione di Messina a causa del sisma (Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina), la violenza di genere (Bocca immonda), il fenomeno delle migrazioni con i suoi naufragi (Contro l’assedio delle ceneri), le morti bianche sul posto di lavoro, la corruzione e l’empietà degli uomini, che fanno ribaltare il motivo romantico del dialogo alla Luna in un interrogatorio alla Terra (Terra / Luna: un’infinita risonanza). Compatibilmente con la produzione poetica, Insana non ha mai abbandonato la prolifica attività di traduttrice, che così descrive: “tradurre non è soltanto uno straordinario esercizio o ingresso nell’altrui laboratorio, è soprattutto una bella tecnica di corteggiamento e avvicinamento del poeta la cui parola si vuole vera e naturale, fingendo annullamento di distanza e tuttavia comunicando ogni differenza di tempo luogo e manufatti; è insomma, amoroso corpo a corpo, eccitazione e scoperta, rispetto dell’altrui identità, non dimenticando che l’altro è e sempre resta altro”. Sotto questa luce è possibile oggi rileggere grandi classici greci e latini (Saffo, Euripide, Alceo, Plauto, Ipponatte, Callimaco, Anacreonte, Lucrezio, Marziale) apprezzando l’originalità e l’eleganza delle sue commoventi traduzioni. Nel solco di quest’attività, la poetessa ha anche adattato in versi alcune opere dei contemporanei Ahmad Shawqi e Aleksandr Tvardovskij.
Ancora impegnata, dunque, in tanti e diversi progetti, Insana si spegne nel 2016 per un male incurabile, colta pronta e combattiva da quella morte “tutta incrugnata sulla vita” contro cui voleva continuare a “sbraitar cantando”.

Anche se la sua scomparsa è ancora molto recente, le manifestazioni culturali che la vedono protagonista potrebbero essere utile punto di partenza per immaginare un luogo o una vita, un omaggio comunitario per celebrare Insana e quella sua lingua “lazzariàta” che ne ha insolubilmente legato la poesia a Messina.

SeFiGi 

 

Per approfondire:
Gianfranco Ferraro e Giuseppe Lo Castro. Pupara sono. Per la poesia di Jolanda Insana. Falco Editore. 2019
http://www.leparoleelecose.it/?p=3823
https://www.youtube.com/watch?v=q5tqCWZKgqs
https://vocisottili.wordpress.com/2019/03/17/altre-voci-jolanda-insana-da-tutte-le-poesie-piu-non-riconciliera-abele-e-caino/
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