Brioscia

 

Fra sud e nord Italia le maggiori incomprensioni sono innanzitutto di ordine linguistico, oltre che culturale. Ne sanno qualcosa i tanti messinesi emigrati a settentrione che hanno avuto l’ardire di scotolare la tovaglia, di chiedere con nonchalance delle masticanti in una tabaccheria di Milano, o di aggirarsi fra gli scaffali di un supermercato di Padova cercando invano l’introvabile mollica (ovvero il pangrattato). Qui pro quo lessicali che sono nulla in confronto all’incommensurabile affronto che ogni terrone doc è costretto a sorbirsi durante il rito della colazione: una fitta al cuore quotidiana che ci trafigge come una lama rovente osservando quella distesa indistinta di croissant, flan, muffin e saccottini che oltre Po si ostinano a chiamare brioches. 

Malgrado l’assonanza, la brioscia nostrana è tutta un’altra cosa. La brioscia, a Messina, è una cosa sacra, come la mamma: un morbido e fragrante disco volante sovrappeso che ha nel suo semisferico vertice la parte più prelibata. Lo si stacca dalla base e lo si inzuppa dolcemente nella granita, in un rito gestuale e culinario che si sublima a contatto con la panna. E guai se qualcuno si azzarda a privarcene. Possono anche licenziarci dal lavoro, pignorarci la casa o rapirci la sorella… ma il tuppo della brioscia no. Quello non ce lo devono toccare. O volano le moffe. 

A proposito di incomprensioni linguistiche: “guarda il mare”, in finlandese, si dice “Katso Merta”. E poi ci parlano di Europa unita.

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Giuseppe Carcione
27 Luglio 2017 18:44

Bastasu e babbannacchiu!