“I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo”, scriveva Wittgeinstein nel suo Tractatus logico-philosophicus, uno dei capisaldi della filosofia del linguaggio del Novecento. Significa, detto con parole semplici, che quando non abbiamo a disposizione una parola per esprimere un concetto, non possiamo formularlo. Perché è al di là dei confini della realtà che siamo stati in grado di ritagliarci attorno.
Allo stesso modo, il linguaggio è uno degli elementi che più di tutti posso aiutarci a capire la cultura di un popolo, la sua storia e la sua indole, il suo passato e il suo presente.
In fondo noi siamo ciò che diciamo. Siamo ciò che siamo in grado di dire. Così a livello individuale, così, a maggior ragione, a livello collettivo. E più è ricco e variegato il nostro dialetto, più sono i termini con i quali designiamo gli stati di cose, tanto più è possibile comprendere meglio il nostro modo di essere e il nostro modo di approcciarci al mondo.
Il dialetto messinese è antico e vario, ricchissimo di sfumature. Un modo di parlare che ci caratterizza e ci accomuna, rappresentando più di tutto il resto – più del cibo, addirittura – l’elemento identitario di una collettività socialmente schizofrenica e slabbrata.
Per questo riteniamo necessario approfondirlo, riscoprendo fra il serio e il faceto termini aulici ed espressioni di borgata che fanno parte del nostro dna. Un divertissement a puntate per comprendere meglio chi siamo. E dove stiamo andando.
Iniziamo con cinque (ci siamo affezionati) parole con la S che esistono solo a Messina. Naturalmente ce ne sono molte altre. Per questo chiediamo ai lettori di fornirci le loro parole. Quelle intraducibili. Quelle che trasudano messinesità in ogni sillaba. Quelle che per spiegarle a chi non le conosce – per spiegarle bene – servirebbe come minimo un manuale di sociologia. E forse non basterebbe nemmeno quello.