23 dicembre

È arrivato. Ce l’hai fatta. Sono quattro mesi che aspetti questo momento. Quattro mesi che ogni giorno, quasi come fosse un santino, guardi il biglietto che sei riuscito a comprare a settembre a un prezzo ancora umano. “LIN- CTA” recita, e tu lo hai letto ogni giorno in una preghiera silenziosa. È arrivato il momento, stai tornando a casa.

Scendi dal pullman che hai preso all’aereoporto e fai un respiro profondo. L’aria umida ti pizzica le guance, la gente passaggia, non corre. Urla, non parla. Passa col rosso, suona, si ferma sulle strisce pedonali: casa. Ad aspettarti ci sono i tuoi genitori, abbracci, qualche lacrima, il profumo di tua mamma e il mezzo sorriso orgoglioso di tuo padre. L’idillio dura dieci minuti: poi ricominciano ad essere i tuoi genitori e partono i primi litigi. Va bene così, sei a casa.


24 dicembre

A destarti, per la prima volta dopo mesi, non è il suono della sveglia ma il profumo del ragù che tua madre sta preparando in cucina. Come i topini con il pifferaio magico ti alzi dal letto in modalità zombie, inciampi nella valigia ancora da disfare, sbatti contro qualche muro, alzi il coperchio della pentola e il contenuto ti borbotta “fallo, te lo meriti” con la stessa forza di attrazione dell’anello con Frodo. Così prendi un pezzo di pane, lo immergi nel sugo e poi lo gusti lentamente, a occhi chiusi, come riemergendo da un’apnea nella quale non ti eri neanche accorta di stare. Le papille gustative esplodono e un brivido percorre tutto il tuo corpo dalle dita dei piedi alla testa. Tiri un sospiro di sollievo in un orgasmo culinario delle 7:30 del mattino.

Hai deciso che la tua tenuta da smartworking composta da pantaloni di tuta e maglioncino serio sarà anche l’outfit per la cena della vigilia, cioè non è che lo hai proprio deciso. Più che altro hai finito di lavorare alle 18:00 e già in casa c’erano tua nonna e tua zia che uscivano dalle buste teglie “incartate” in canovacci e hai capito che non ne valeva la pena.

Tanto sai già come andrà la serata: mangerai, perderai a carte, qualcuno ti dirà «Sfortunata nelle carte fortunata in amore» e tua madre, femminista agguerrita dal ‘66 si iserà all’aria a uso Vegeta (cit.) urlando: «NON HA BISOGNO DI UN UOMO CHE LA MANTENGA», così da lì partiranno dialoghi sui massimi sistemi dai quali ti defilerai silenziosamente. Tu volevi solo vincere due euro a cucù.


25 dicembre

E ora quando risali? E come ti trovi? Ma ti pagano? Eh ma Milano è una città caotica, corrono tutti. Certo qui prendiamo la vita più tranquillamente. Ma poi piove sempre. Eh ma qui c’è il mare, non potrei vivere senza.

Il giorno di Natale scivola lentamente tra le mille domande che senti ormai da anni e che ti fanno nonni, zii e qualche cugino, quasi a voler dare una giustificazione al loro restare a Messina, quando non ce n’è bisogno, davvero. E mentre lasci scivolare l’ultimo pezzo di pane, “china comu l’ovu”, la tavola viene svuotata per poi essere riempita nuovamente con rum, gin e liquori vari che fanno da comparsa sulla tavola di Natale dal 1995 e che nessuno ha mai avuto il coraggio di provare. Poi cannoli, stelle di Natale, bianco e nero, la solita diatriba tra pandoro e panettone per colpa della quale due zii non si parlano più. E quando credi sia finita e ti senti anche un po’ confusa, tu, abituata alla tua pastina al tonno, al massimo con un ragù pronto, quando vuoi regalarti una cena elegante, vieni “presa a moffe” da un odore che sai già ti porterai dietro per i prossimi tre giorni: quello dei mandarini, il nonno ne sta sbucciando uno.


26 dicembre

Il gruppo whatsapp creato dopo gli esami di maturità sta esplodendo da giorni e tu sai che è arrivato il momento di aprirlo ma non ne hai il coraggio. Dedichi due ore della tua giornata a capire chi porta i cioccolatini, chi il panettone, chi una torta salata e chi la vodka (c’è sempre qualcuno che porta la vodka) perché il 26 dicembre, anche detto Santo Stefano, aka “giorno degli avanzi” è LA giornata delle giocate con gli amici.

Abbracci e baci come se avessimo vinto i mondiali, invece sono solo quei quattro “scappari” con i quali hai passato l’adolescenza. E dopo più di dieci anni di fedele amicizia Giorgio sta per andare a convivere, Mario si sbatte tra mille lavori perché non vuole andare via da Messina, Fabiana ha avuto il culo di essere assunta in una multinazionale che la fa lavorare in smartworking, Giovanna sta dietro le classi di concorso per provare a insegnare al liceo.

Proprio mentre annaspi in un mix di malinconia e orgoglio, uno di loro, Marco, un paio d’anni fuori corso all’università e affetto da ludopatia natalizia acuta esclama: «Ma na facemu na bella tombola?» . E come Jon Snow durante la “Battaglia dei Bastardi” apri la scatola e ti ritrovi in un attimo sommersa da chi spinge, morde, si insulta per prendere le caselle fortunate.

«LE PALLE DEL PAPA», esclami al primo numero uscito e Fabiana, buontempona conosciuta per la sua simpatia risponde «AMBO». È tutto perfettamente in equilibrio, come dovrebbe essere.

Tra routine annuali, battute invecchiate male e ricordi passa la nottata. Sono le quattro del mattino e nessuno se n’è accorto, tranne Mario, che è l’unico che comincia a sentire il peso incombente dei trenta ed è collassato sul divano subito dopo aver perso a tombola.


31 dicembre

La domanda ti devasta da giorni. Scrivi sul gruppo con gli amici «Quindi? Com’è finita per stasera?». Avete in campo tre proposte: una serata in discoteca, una passeggiata in centro o un raduno a casa di qualcuno. «In centro no, ci sono i picciriddi con le bombe» ,«Non voglio pagare cinque euro per il guardaroba», «Io a casa mi addormento, bonu mu sapiti», sono le frasi che accompagnano l’intera giornata – e probabilmente anche la nottata- del 31, ma non ci pensi, perché questa sera, come da tradizione, si mangiano i pidoni, quindi tutto passa in secondo piano.  E proprio mentre assapori quel che resta della mezzaluna farcita d’amore, dopo il classico conto alla rovescia che è quasi una liberazione, un vaffanculo a denti stretti all’anno che è finito (anche quando è stato clemente), guardi i fuochi d’artificio illegali che esplodono sulla città, le luci delle case sono tutte accese, vedi qualche falò e in lontananza senti brindisi e auguri.

Sorridi perché alla fine Messina è tutto questo: un’accozzaglia di cose che in qualsiasi altra parte del mondo non avrebbe senso, qui sì. È la predisposizione al disprezzo, ma sotto sotto l’esserci affezionati, le lamentele, la ciccia senza la polpa e i “non c’è nenti”, la voglia di cambiare le cose che viene schiacciata dal «ma chi te lo fa fare» e le critiche su tutto e mai costruttive, fatte dal divano di casa. E pensi che alla fine non sai se la ami o la odi questa città, ma non hai il tempo di cercare la risposta perché Mario ti sta chiamando: «Oh, io stasera non ci vado in mezzo ai baitti»


1 gennaio

Qualche bumma avanzata dalla sera prima e sparata probabilmente a tre isolati di distanza ti fa svegliare confusa. Controlli l’orario: le 13:45. Apri il frigo e prendi un pezzo di pidone della sera prima che, appena sveglia e freddo, ti sembra mille volte più buono (se è  possibile). Il gruppo whatsapp torna ad impazzire, la proposta della giornata è: passeggiata e caffè tattico a piazza Cairoli.

Il centro città l’uno gennaio è popolato da due tipi di persone: gli zombie e le famiglie. I primi sono quelli che stanno ancora smaltendo le sbornie o solo l’essere andati a dormire dopo le 23:00; le seconde sono quelle che vivono normalmente e vengono guardate male dai primi.

La tradizionale passeggiata di capodanno comprende tre o quattro vasche sul viale, passate principalmente a schivare le cacate dei cani e le gomitate dei padroni e un giro conclusivo a piazza Cairoli, titubanze su «nu facemu u giru supra a rota?», qualche foto con l’albero, all’albero, dietro l’albero, da postare su Instagram perché lo hanno fatto tutti e poi il classico caffè.

Ma l’1 gennaio è un giorno bastardo perché siete tutti felici e spensierati. Poi, completamente all’improvviso, venite assaliti da una malinconia disarmante quando Giorgio, che il giorno dopo ha l’aereo per Torino esordisce con «Vabbè ragazzi io vado, devo ancora finire la valigia e domani ho l’aereo presto». Una frase rompe in mille pezzi quell’idillio nel quale tutti stavate vivendo seguendo solo una regola, tipo Fight Club: non si parla della vita fuori da Messina. 


6 gennaio

«Te lo stai portando un giubbotto pesante?». Tuo padre sull’uscio della porta della tua camera, come a volersi riabituare lentamente al distacco ti riempie di domande e tu con calma, perché il giorno dopo parti e non vuoi rispondergli male ripeti «Si papà» a ogni punto della sua checklist. Lasci la valigia aperta, chiuderla vorrebbe dire ufficialmente essere pronti e tu ancora non ti senti prontissima. Da un lato ti manca la libertà che hai a Milano, dall’altro sai che i primi due giorni saranno un supplizio. L’aperitivo di saluto con gli amici è fatto di parole, tantissime parole, perché se si sta zitti poi cala la tristezza e non va a nessuno, almeno fino al secondo giro.

E tra promesse di ritrovarsi, di fare maggiori viaggi e di non aspettare Pasqua per stare di nuovo tutti insieme (spoiler: nessuna promessa verrà mantenuta), vi salutate come si salutano dei fratelli, con gli occhi lucidi e con un abbraccio che colma quelli che non vi siete dati negli ultimi dieci anni.

Torni a casa con un nodo alla gola. Un messaggio fa illuminare lo schermo del cellulare. È Laura, la tua collega veronese: «Sono appena tornata a Milano, domani cenetta contro la malinconia?» Ci rivediamo a Pasqua.

 

Illustrazione in copertina di Giampiero Neri

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