MESSINA. “Abbiamo salvato la città dal fallimento”: così un raggiante e commosso Cateno De Luca ha comunicato l’esito della convocazione davanti alla Corte dei conti per rispondere ai pesanti rilievi sollevati un mese fa sulla tenuta dei conti del comune di Messina. “Oggi la Corte dei Conti ha apprezzato pubblicamente il lavoro compiuto per salvare la città dal fallimento e l’attestato sulla passione civile che ho profuso nell’esporre le mie controdeduzioni ai rilievi della magistratura contabile, è stato il più bel complimento che potessi ricevere”, ha spiegato De Luca in una diretta. Ma che è successo? E Messina è davvero fuori pericolo?

In realtà no: la decisione è rimandata (anche se l’ipotesi è stata allontanata). Con delibera di giunta del 31 gennaio, l’amministrazion ha deciso di avvalersi della facoltà, concessa dalla legge, di rimodulare ancora una volta il piano di riequilibrio, procedura che concede a Messina più tempo (e più soldi: dal 2022 in poi il Governo mette a disposizione oltre 10 milioni di euro all’anno) per rientrare dai debiti accumulati nei decenni, e per mettersi comunque al sicuro dal possibile giudizio negativo della Corte dei conti, che a gennaio aveva preso a schiaffoni il comune di Messina. De Luca, e il direttore generale Federico Basile, hanno controbattuto ai rilievi sollevati dalla corte e, nonostante non ce ne fosse reale necessità, il sindaco ha comunque voluto illustrare di persona ai magistrati contabili il nuovo piano di riequilibrio. Perchè non ce n’era bisogno? Perchè la Corte ieri non si è espressa, nè avrebbe potuto, sul dissesto o sull’aggiustamento degli indicatori economici del comune di Messina semplicemente per cessazione, col nuovo piano, della materia del contendere sul vecchio (nonostante su quest’ultimo il comune di Messina abbia inviato controdeduzioni): la Corte si pronuncerà quando e se il ministero dell’Interno approverà il nuovo piano di riequilibrio rimodulato, che il consiglio comunale dovrà approvare antro 120 giorni dalla riformulazione e dal deposito del 31 gennaio. E quindi ieri la Corte si è aggiornata a data da destinarsi, senza entrare nel merito delle controdeduzioni.

Secondo De Luca, i magistrati contabili hanno “lasciato intendere” che il piano sarà approvato a breve. Ovviamente è un’iperbole, perchè i magistrati non “lasciano intendere” ma emettono delibere, decreti e sentenze, e perchè comunque prima che arrivi alla Corte dei conti, il piano deve seguire un iter che la prima volta è durato quasi un decennio: la procedura infatti prevede che il piano andrà approvato (o emendato, o bocciato) dal consiglio comunale, e una volta adottato andrà inviato al ministero dell’Interno per ricominciare tutta la procedura di valutazione e validazione dall’inizio. La prima volta, per esaminare il piano di riequilibrio proposto dal comune di Messina, il Viminale ci ha messo nove anni, dalla delibera di consiglio comunale del dicembre 2012, in cui si aderiva alle procedure di riequilibrio finanziario pluriennale e si accedeva al fondo di rotazione fino, attraverso una mezza dozzina tra scritture, riscritture, bocciature e rimodulazioni, all’approvazione di fine marzo del 2021nove anni dopo.

De Luca ha spiegato ai magistrati contabili che le azioni della sua giunta hanno abbattuto il debito del Comune, che inizialmente era di 557 milioni di euro: in realtà i debiti erano molti di meno, ma, come lo stesso De Luca scrive in maniera stupefacente nelle controdeduzioni, “abbiamo inserito nella massa debitoria del PRFP, con la rimodulazione del 23 novembre 2018, una parte consistente che non aveva titolo a starci o era facoltativo inserire”. E infatti dai 557 milioni ci sono da sottrarre i 132 milioni di debiti delle partecipate, che non sono a carico del Comune per il principio del “divieto di soccorso finanziario” (ma De Luca li aveva inseriti ugualmente nel piano di riequilibrio per, letteralmente, “persuadere i creditori a sottoscrivere gli accordi di abbattimento del 50% del credito”), più altri debiti “nominasli (ma non effettivi), per un importo totale di quasi 265 milioni di euro da togliere dal computo: una massa debitoria reale di quasi metà di quanto originariamente si era affermato si dovesse pagare, che De Luca candidamente afferma, in un documento ufficiale da sottoporre all’attenzione dei magistrati contabili “non aveva alcun motivo di essere contemplata ma tale scelta è stata messa in atto per agevolare le attività di rientro programmata nel PRFP”.

Nella diretta, con la voce rotta dal pianto, De Luca ha anche affermato che non si sarebbe più potuto candidare alle elezioni per dieci anni, in caso di dissesto, “mentre i sindaci che mi hanno preceduto ed hanno generato i debiti sarebbero rimasti impuniti”. E’ vero? Si e no. Secondo la prassi sul dissesto degli enti locali, normata dal decreto legislativo 267 del 2000 (negli anni più volte modificato), gli amministratori che la Corte dei Conti ha riconosciuto responsabili, anche in primo grado, di danni da loro prodotti, con dolo o colpa grave,  “non sono candidabili, per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. Non possono altresì ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale, provinciale o regionale nè alcuna carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici”. E’ quindi vero che la dichiarazione di dissesto implica incandidabilità, ma deve essere stabilita la “colpa” del dissesto, non è un processo automatico. E tra tutti i sindaci, quello a cui si possono imputare le colpe maggiori non è di certo De Luca, che si è presentato davanti alla Corte dei conti forte di oltre 12mila accordi coi creditori (su 17mila, anche se il limite temporale per la scadenza delle trattative è stato spostato di sei mesi in sei mesi, dall’originaria scadenza a dicembre del 2018 fino ad aprile 2022), e di un piano pieno di artifici contabili. Che la Corte aveva già pesantemente criticato ma sul quale non si esprimerà più, superato com’è dal piano rimodulato del 31 gennaio.

 

 

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