Il primo contatto con Messina avvenne a seguito del Terremoto del 1908. Studiò a fondo gli effetti del sisma e formulò una teoria originale, basata su una modellazione dinamica delle strutture, che presentò nel 1909 a Torino e che gli valse la vittoria del concorso internazionale bandito dal governo sulla progettazione di costruzioni antisismiche. Così scrisse: “Noi sappiamo che alcune fra le case di Messina e di Reggio erano mal costrutte, inaccettabili per regola d’arte persino nei paesi dove il terreno a memoria d’uomo è rimasto stabile. Ma non possiamo logicamente inferire che se fossero state osservate le migliori regole dell’arte oggi note, la rovina non sarebbe avvenuta, poiché ci manca totalmente il termine di confronto fra la resistenza dei nostri migliori edifici e le forze da cui essi sono minacciati per effetto delle scosse telluriche. Prima di riedificare le città distrutte conviene procurarsi questo termine di confronto, con criteri strettamente scientifici, ricercando da una parte le caratteristiche meccaniche dei movimenti sismici, dall’altra l’effetto dinamico da essi prodotto sulle membrature resistenti degli edifici. […]

La sventura calabrosicula è sventura nazionale. Lo ha proclamato il Parlamento, lo ha affermato solennemente uno slancio concorde e mirabile di carità, lo abbiamo sentito tutti nel nostro cuore di italiani. Rientrata in breve la calma sapiente che osserva, misura e provvede, si è levato alto sopra tutti il problema della salvezza avvenire. Poiché, qualunque siano le private opinioni, le città colpite devono fatalmente risorgere, è necessario ed urgente rivolgere tutti i mezzi della scienza ad uno sforzo concorde per dare, a chi ama quelle terre e perciò ha diritto di abitarle, la sicurezza della vita.”

Purtroppo però, i suggerimenti tecnici di Danusso furono solo in parte recepiti dal Regio Decreto per la ricostruzione che, più che investire su moderne tecniche di isolamento sismico, preferì orientare la riedificazione della città verso costruzioni più tradizionali a base fissa e con stringenti limitazioni in altezza.

Proseguì la sua attività professionale nell’ambito del risanamento di edifici storici a rischio, quali la Mole Antonelliana, la Torre di Pisa, il campanile di S. Ambrogio e il duomo di Milano, e fu tra i pionieri, in Italia, nella progettazione dei grattacieli in acciaio, come la torre Velasca e il Pirellone a Milano e diversi grattacieli a Montreal, in Canada. Con la collaborazione dell’allievo e amico Pier Luigi Nervi, usciranno anche i progetti della Sala Nervi in Vaticano e della Cattedrale di S. Mary, a San Francisco.

Ma il vero legame con Messina si salda indissolubilmente solo nell’immediato dopoguerra. Sebbene se ne parlasse già dal ’21, per le difficoltà tecnologiche e la lunga pausa bellica, solo nel 1946 il CONIEL (Compagnia Nazionale Imprese Elettriche) diede il via all’ambizioso progetto di realizzare un collegamento elettrico stabile tra le due sponde dello Stretto e interconnettere, quindi, la Sicilia alla penisola. I problemi non erano affatto pochi. Stante la distanza tra le sponde, le torri di sostegno dei cavi avrebbero dovuto essere sufficientemente alte da consentire che i cavi elettrodi non interferissero, nel punto più basso dove il cavo “spancia” (la freccia massima della catenaria), con il transito delle navi più alte (70 m). Inoltre, avrebbero dovuto resistere al forte tiro dei cavi, alle azioni del vento, fino a 100 km/h, a sbalzi termici esterni da 5°C a 40 °C, e a condizioni anche proibitive di terremoto.

Si optò per strutture autoportanti (i piloni si reggono senza bisogno di “stralli”, ovvero di cavi tiranti) perché, sebbene più costose e ingombranti, ne era più facile prevedere il comportamento in caso di sisma. Anche per questo motivo, si optò per una fondazione unica monolitica (anziché quattro fondazioni separate, una per piede), soluzione più costosa ma più sicura. Nel 1947, furono contattate 6 società per proporre un progetto preliminare: Dalmine, Savigliano, CIFA, Badoni, Terni e SAE. Tra i tre progetti selezionati preliminarmente (Badoni, Terni e SAE), giudicati in grado di assolvere al compito, si selezionò infine quello della SAE, redatto sotto la supervisione di Arturo Danusso, perché più economico a parità di funzionalità. Il progetto prevedeva due piloni troncopiramidali con una struttura sufficientemente elastica da renderli insensibili agli assestamenti delle fondazioni. Un modello in scala 1:25, perfettamente ricalcante la geometria dei profilati che lo costituiscono, fu realizzato e testato su tavola vibrante per le prove sismiche ed è oggi conservato nel Museo della Tecnica di Milano.

Con i suoi 204,3 m di altezza (al punto di sospensione del cavo) e con una campata di 3646 m, l’elettrodo infranse due primati mondiali (il secondo sarebbe tutt’oggi detenuto se i cavi non fossero stati nel frattempo dismessi nel 1994).

 

Sul lato Messinese, a Capo Peloro, il pilone più imponente, 224 m nel punto più alto, pesante 550 t, accessori inclusi, poggiato su una piattaforma di fondazione di 10,7 m che si spinge fino a 18 m al di sotto del mare. Sulla sponda calabrese, si optò invece per un traliccio più basso, sfruttando il rilievo naturale, ma non per questo di minor difficoltà costruttiva. Il difficile accesso a luoghi impervi comportò soluzioni non banali per le opere di movimento terra e di penetrazione della fondazione sulla roccia stabile.

Ciclopiche anche le opere di ancoraggio dei cavi. Sulla sponda calabrese, in località Caporafi, si utilizzò un sistema relativamente semplice dal momento che fungeva da ancoraggio fisso. Sul lato messinese, invece, si ricorse a un sistema ingegnoso di tamburi e pulegge che consentiva di tenere i cavi sempre in tiro, assecondando la naturale contrazione e dilatazione dovuta agli effetti termici. Inoltre, tale sistema permetteva ai due piloni di lavorare solo a una forza di compressione, e non a una di flessione, cosa che ha permesso di realizzare strutture così imponenti con una geometria così snella e leggera. Le pulegge erano ospitate in due torri, anch’esse colossali in quanto chiamate ad assorbire tutto il carico dei cavi, alte 22 m e disposte a circa 630 m di distanza dal pilone messinese. Per la progettazione delle torri ci si avvalse della collaborazione di Riccardo Morandi, che le realizzò in cemento armato precompresso. Furono la prima struttura verticale al mondo realizzata con tale tecnica: un altro record.

Un ultimo dettaglio non da poco fu la progettazione dei cavi elettrodi. Tre cavi trasferivano la potenza elettrica, mentre uno aveva funzioni di backup. I cavi dovevano lavorare ad una tensione di 220.000 V (alta tensione) e una potenza elettrica di 150 MW, per cui, per sopportare la temperatura indotta dal passaggio di corrente, non potevano avere una sezione troppo modesta. Si optò per un cavo in grado di lavorare fino a 100 °C, con un diametro di 27,9 mm, costituito da 19 trefoli composti da un’anima in alluminio e complessivi 120 fili di acciaio da 1,8 mm. Ognuna delle quattro funi, zincata e ingrassata, pesava circa 10 tonnellate (precisamente 2,71 kg a metro) e poteva sopportare in opera un tiro fino a 58 tonnellate. La distanza tra le funi era di 25 m per evitare possibili contatti in caso di forte vento e, di conseguenza, le mensole in testa al pilone dovevano sbracciare per ben 75 m. Il montaggio e la tesatura dei cavi avvennero con l’impiego di due rimorchiatori che, partendo dalle due sponde, si incontrarono al centro dello Stretto, passando due funi pilota. Le funi pilota servirono poi per richiamare i veri cavi conduttori che non avrebbero mai dovuto toccare l’acqua di mare.

I lavori complessivamente si estesero dal 27 gennaio 1952 con la posa, in una giornata tempestosa, della prima pietra da parte del Ministro Aldisio al giorno dell’entrata in servizio dell’impianto, il 27 dicembre del 1955. Nel 1957 la costruzione fu insignita del premio dell’Associazione Nazionale Ingegneri e Architetti Italiani come miglior opera dell’elettrotecnica italiana del periodo 1951-1956.

Dopo circa 40 anni di servizio, il collegamento aereo fu dismesso e sostituito da un collegamento sottomarino, in grado di sopportare potenze elettriche superiori. Tale soluzione, dopo diversi tentativi, era stata già a suo tempo testata e scartata per il costo eccessivo, a causa del fatto che i cavi avrebbero dovuto seguire dei tracciati di lunghezza media di 27 km a una profondità massima di 400 m, stante la stringente necessità di non farli avvicinare eccessivamente (per limitare le interferenze elettriche) in conseguenza dell’incessante azione delle correnti. Dal 1994 le torri sono diventante dunque monumento, senza più funzioni pratiche se non quelle di stazione meteo e (occasionalmente) di meta (abusiva) di turismo sportivo. Tentativi di un’apertura controllata al pubblico sono stati nel tempo effettuati, senza mai però approdare a una soluzione continuativa e sicura.

Certamente l’opera fu un gioiello corale dell’ingegneria italiana, con numerose figure chiave nel progetto e nella costruzione, ma i meriti di Danusso furono di spicco: dalla diretta partecipazione alla progettazione, ai test sui materiali, alla capacità di essere risolutivo nelle lunghe discussioni sulle scelte tecniche da adottare.
Danusso tornerà a Messina nel 1958 per presiedere il congresso in occasione del cinquantenario del grande Terremoto. Esistono vie dedicate ad Arturo Danusso a Roma e a Milano, a Messina invece sembra essere completamente dimenticato.

FiGi

Per approfondire:
Il discorso di Torino del 1909 è consultabile qui: https://digit.biblio.polito.it/384/1/1909_004a.pdf
La storia completa del pilone e i dettagli tecnici sono in: L’attraversamento elettrico dello Stretto di Messina, Libreria Dedalo editrice, Roma. 1958

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