Desideroso di vedere il mondo, di lasciare gli angusti confini della Danimarca e i suoi dolori familiari, negli anni 30 dell’Ottocento, Hans Christian Andersen riesce a realizzare il suo sogno, quello di viaggiare. Nel 1831, per la prima volta, si avventura in Germania e Svizzera, poi sarà la volta di Italia e Francia. Lo stesso periodo dei viaggi, coincide con quello più prolifico della sua produzione fiabesca, con la pubblicazione dei capolavori che hanno incantato, e continuano a farlo, generazioni di bambini e di adulti. Tra il 1840 e il 1841, a 35 anni, sovvenzionato da una borsa di studio, riesce finalmente a raggiungere il Sud (e poi l’oriente, fino a Costantinopoli). Erano da poco uscite alcune delle sue fiabe più celebri, La sirenetta, Il soldatino di stagno e I cigni selvaticie Andersen si prende una lunga pausa in cerca di nuovi stimoli nel magico e fatato mondo del Bel Paese.

A Messina, Andersen giungerà in nave, da Napoli. La tranquillità del viaggio lo stupirà, un po’ per le sue esperienze dei mari del nord – dov’è il selvaggio Mælstrom?  si chiederà – un po’ per la sua ricerca, delusa, dei mitici mostri Scilla e Cariddi. Il primo impatto, arrivando da nord, fu con il villaggio di Torre Faro. “Scivolammo leggeri davanti alla torre del faro, situato sulla punta di una secca sabbiosa occupata da un pittoresco villaggio di pescatori e congiunta alla periferia di Messina […] navi si incrociavano in tutte le direzioni, i pescatori tiravano le reti e tendevano le vele; sulla spiaggia giocavano i bambini”. Poi la vista di Messina: “Ci eravamo già lasciati alle spalle il golfo e la città di Messina coi suoi palazzi giallo-grigi e i suoi tetti piatti; bandiere straniere sventolavano nel porto ben protetto, ma quella danese non c’era.”

Appare irresistibile la sua vena poetica, annotata nei diari di viaggio, alla ricerca continua dell’elemento fiabesco nella storia e nel mito dei luoghi che visita. Alla ricerca, in particolare, della Fata Morgana che era stata descritta poco prima di partire per il lungo viaggio nella fiaba I cigni selvatici. La Fata Morgana, nel suo castello di nebbia, svela ad Elisa come, raccogliendo e pestando a mani nude ortiche, possa trasformare gli undici fratelli, tramutati in cigni da un sortilegio, nuovamente in esseri umani.  Questo il suo incontro con la Fata sulle rive dello Stretto:

“Il sorriso di queste coste ha davvero un potere soggiogante, e il mio pensiero volò a tutti coloro, forse milioni di persone, il cui cuore annaspò tra il timore della morte e il desiderio della vita, a quei milioni di navigatori che passarono da qui, dal tempo in cui Ulisse si lasciò dietro la caverna di Polifemo fino al nostro vaporetto che oggi plana rapido come una freccia su questo specchio d’acqua, dove la Fata Morgana suscita i suoi castelli d’aria; ma né colonnati di raggi luminosi, né fantastiche cupole o gotiche torri si levarono su quell’acqua azzurra al nostro passaggio, e tuttavia, per l’occhio e per la mente era la costa stessa una Fata Morgana”.

Il giovane Andersen non si lascia soggiogare dalle brame virili dei compagni di viaggio e ricerca la femminilità, non tra le isolane, bensì nell’isola stessa. La Fata Morgana dello Stretto e l’Etna sono le sue sirene, le sue muse. Così annota nel diario di viaggio:

“ Un giovane francese disse: «Ci sono donne davvero belle in questa città, belle come Scilla e Cariddi, le quali non dimorano più nel mare come una volta, ma stan sedute sotto il pergolato e continuano ad attirarci nelle loro reti coi neri occhi ardenti, le belle membra e il sorriso malizioso» […] Tutte quelle valli sono deliziosi pergolati di viti all’ombra delle quali siede… no, non il dio Amore, ma qualcuno che noi di gran lunga preferiamo: vi siedono le più affascinanti donne della terra, ardenti come l’Etna, lievi come la Fata Morgana, ma che, grazie a Dio, non si dileguano come fa lei, quando le afferri!”.

Appare invece meno coinvolto, come reimpossessato da quel rigore nordico che sembra sempre rapidamente dileguarsi quando si accosta al mito e alla favola, nel raccontare della sua esperienza con la tradizione religiosa della Madonna della Lettera. Prende anche una bella cantonata confondendo, nei suoi appunti di viaggio, la festa della Vara con una festa di “Varrone”.

“Un ecclesiastico romano indicò la città dei messinesi e con pathos solenne raccontò di una lettera scritta di sua propria mano dalla madre di Dio, una lettera autentica che si conserva nella cattedrale della città; è indirizzata agli abitanti di Messina; l’uomo esultava ancora al ricordo della festa di Varrone, degli splendidi addobbi che ornavano la chiesa e della magnifica processione durante la quale, una volta era toccato proprio a sua sorella l’onore di rappresentare la madre di Cristo. Insieme ai preti, i membri della confraternita tiravano per le strade una macchina su ruote in tutto simile a una grande casa, zeppa di uomini e donne, giovani e vecchi, abbigliati come angeli, profeti e santi; alta su tutto troneggiava la donna più bella di Messina, in rappresentanza della Vergine Maria.”

(Stampa dell’archivio di Franz Riccobono e Giangabriele Fiorentino)

Terminata la sua visita messinese, alla ricerca dell’Etna, si sposterà più a sud, quando finalmente gli apparirà d’improvviso. “Oltre la costa rocciosa vedevo però solo pesanti nubi. Alzai ancora di più la testa, guardai verso il cielo, e in alto, sopra le nuvole, nell’ aria limpida, c’era la cima dell’Etna coperta di neve, sciolta in lunghe crepe intorno al bordo del cratere. Che grandezza! Il Vesuvio è un monticello di sabbia in confronto a questo gigante, orgoglio e benefattore della Sicilia. È un anfiteatro per gli dei supremi! Ogni gradino forma una zona, la più bassa ci presenta vigneti e giardini, la seconda è una regione boscosa con alberi secolari, la terza ha solo ghiaccio e neve, la quarta fumo e fiamme. […] Fino al punto in cui giungeva il nostro sguardo sulla valle, l’Etna era innevato; lassù c’era ancora l’inverno nordico, ai suoi piedi invece c’era l’estate del Sud con fiori freschi, frutti maturi, palme e fichi d’India.”

Terminerà con queste parole poetiche il suo resoconto di viaggio siciliano: “Che tramonto! Che vista! Può essere resa solo dalla mano che riesca a dipingere realisticamente il meraviglioso arcobaleno sulle leggeri nubi sospese. Dalla costa ci giunge il suono di una campana; risuonava così melodico, era come l’ultima nota del cigno morente, quando piega la testa e sulle grandi ali spiegate scende dal cielo nel mare azzurro e immobile.”

E, forse, non è un caso se, al suo rientro dal viaggio nel Sud, pubblicherà una delle sue più celebri fiabe, Il brutto anatroccolo, la storia di un cigno che, visto come diverso, viene emarginato e crudelmente maltrattato ma che, al momento giusto, rivela al mondo la sua incredibile bellezza.

FiGi

 

Per approfondire:
Hans Christian Andersen, Il bazar di un poeta (1842), trad. italiana di Marcella Rinaldi (2004)
Felice Irrera, Viaggiatori a Messina, ed. Giambra, 2017
Articolo di Salvatore Ferlita su repubblica.it (2007) https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/11/30/un-diario-di-andersen-sul-viaggio-nell.html
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