MESSINA. La Corte d’appello ha confermato la condanna per un medico che non avrebbe assistito una donna che ha partorito nel bagno della sua camera del Policlinico dove era ricoverata per un aborto terapeutico. Non sarebbe intervenuto perché obiettore di coscienza. I giudici hanno confermato un anno, pena sospesa, al dottore Leone Scurria per omissione in atti d’ufficio. La conferma era stata chiesta anche dal sostituto procuratore Maurizio Salomone. 

Secondo l’accusa, il medico difeso dagli avvocati Saverio Gullone e Antonino Brancatelli si sarebbe rifiutato di intervenire. A febbraio 2012 il medico era stato prosciolto, ma la Corte di Cassazione, su ricorso della parte civile, rappresentata dall’avvocato Antonello Scordo, aveva annullato la decisione del gup rinviando tutto indietro. Si era svolta quindi una nuova udienza preliminare che aveva portato al rinvio a giudizio. A presentare un esposto era stata una trentasettenne che nella notte tra l’11 ed 12 giugno 2010 aveva espulso un feto nel bagno della sua stanza. La donna, mamma di due bambini, era alla terza gravidanza. Nel corso dei primi mesi, essendo sorte complicazioni, era stata costretta a scegliere l’aborto terapeutico. Ricoverata al Policlinico, i medici avevano iniziato la stimolazione. La donna denunciò di aver chiesto l’intervento dei medici ma che arrivò un infermiere a dirle che non sarebbero intervenuti perché obiettori di coscienza. Durante la notte la donna, assistita dalla madre, era andata in bagno dove aveva espulso il feto da sola. 

 

Il racconto della donna, pochi mesi dopo.

Un aborto nel bagno. Nella stanza dell’ospedale. È successo prima della rissa in sala parto, nel 2010. Laura (il nome è fittizio, la donna ha chiesto di poter raccontare la sua storia in anonimato) è al quinto mese di gravidanza. Sarebbe il terzo figlio, lei ha già un bimbo di 10 anni e un altro di sette. Ma la morfologica “mi fa crollare il mondo addosso”. Il dottore Antonio De Vivo è costretto a spiegarle che il bambino presenta delle malformazioni. Laura piange tutte le sue lacrime, poi prende la scelta “più difficile della mia vita”. Quel venerdì mattina di inizio giugno torna al reparto di ginecologia, prima del tempo che aveva previsto, in condizioni opposte a quelle che aveva sperato per quei primi 5 mesi. La pelle scura del volto si raggrinza, sorride, e morde le labbra. Ha la voce calma, parla con estrema chiarezza – racconta Manuela Modica su L’Unità il primo settembre del 2010 – ci tiene che venga tutto fuori così come l’ha vissuto. Quel mattino Laura inizia la stimolazione per portare a termine la gravidanza di un figlio malato. Inizia dal mattino: “Poi, m’hanno detto, ogni tre ore dovremo ripetere la stimolazione”. Così scorre il più brutto pomeriggio, a blocchi di tre ore, stimolazione dopo stimolazione. Ma si fa sera: “Alle otto cambia il turno. Alle nove vennero un medico e un’ostetrica. Mi dissero se volevo passare in sala parto così che loro potessero seguirmi. Risposi che preferivo di no. Perché? Io conosco la sala parto, sarei rimasta sola. Mia madre non sarebbe potuta entrare. Non avevo bisogno solo di un supporto medico ma anche di uno emotivo: alle nove i dolori erano tanto lancinanti che non potevo alzare il collo. Non immaginavo di dover affrontare tanto dolore e umiliazione per tornare a casa a mani vuote”. Si ferma, e piange: “Mi scusi, la prego”. È un attimo, poi rialza la testa, fiera, e riprende a raccontare. La rabbia le segna con evidenza il volto, con queste rughe nel viso, la giovane donna, 37 anni, racconta delle continue sollecitazioni ai medici, dei dolori sempre più “squarcianti”. “Mi visitò allora l’ostetrica; due secondi di dita dentro la vagina e la diagnosi: “Signora, non si preoccupi, prima di domani mattina non se ne parla. Come farò io fino a domani, chiesi, e se ne andò”. Fu allora che la madre di Laura, disperata, pretese una spasmex, minacciando di andarl a comprare lei stessa, sperando così, attingendo al poco di medicina che sapeva, di calmarle i dolori. L’infermiere la accontentò, dopo aver avuto autorizzazione dal medico di turno a somministrarla: “Non vidi il medico mai dopo le nove, l’infermiere mi disse che erano tutti obiettori e che non m’avrebbero seguita”. Dieci minuti dopo la spasmex Laura partorisce: “Ero in bagno, perché l’unica posizione in cui riuscivo a stare era accovacciata sul water, così è uscito il feto: 

dentro il water è finito. M’avevano detto non prima di domani”. Solo a quel punto medico e ostetrica intervengono, nel racconto della giovane messinese. Così abortisce una giovane donna al Policlinico di Messina, da sola, con la sola assistenza materna, snobbata dal personale medico, obiettore: “Mi fece il raschiamento senza mai rivolgermi la parola, come fossi stata un cane”. E così si ritrovano nel registro degli indagati in sette, dopo la denuncia di Laura. Il primario di ginecologia, Domenico Granese – oggi sospeso dopo la rissa dei due ginecologi – che non vide mai la paziente, “scrisse sulle colonne della Gazzetta del Sud che era tutta colpa mia perché non avevo voluto passare in sala parto, accusando io una sindrome ansioso – depressiva: siamo noi pazienti tanto pazzi da voler rovinarci l’esistenza con eventi traumatici come questo, e non vediamo l’ora di denunciarli… ”.

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments