MESSINA. «In caso di nuove elezioni, il Comune dovrebbe affrontare una spesa di un milione e duecentomila euro». Ad annunciarlo è il sindaco Cateno De Luca, che nel pomeriggio di ieri, a poche ore dal voto in Aula sul “Cambio di passo”, ha tirato in ballo nuovamente la prospettiva delle dimissioni. Che ancora una volta non si sono concretizzate malgrado i 17 voti favorevoli alla sua “piattaforma programmatica” – totalmente ridimensionata rispetto a quella iniziale – non siano arrivati nemmeno al terzo tentativo (ci si è fermati a sedici, ma con i gruppi spaccati dall’interno). Abbiamo scherzato. Di nuovo.

Una “minaccia”, quella delle dimissioni, che incombe sulla città già dall’agosto del 2018, un anno e mezzo fa, quando il primo cittadino (sindaco da appena due mesi) pose al consiglio comunale il primo dei tanti “aut aut” che hanno caratterizzato fino ad ora il suo mandato, e che non si sono mai concretizzati proprio perchè, in un modo o nell’altro, il consiglio comunale gli è sempre stato favorevolissimo.

“Non chiamatelo ricatto, chiamatelo l’ultimo appello da parte di un sindaco che il suo mestiere vuole farlo in un certo modo e non vuole essere ascritto alla lunga serie di fallimenti che hanno contraddistinto questa città”, spiegò all’epoca De Luca, fissando la data fatidica al 5 settembre, giorno della votazione in consiglio comunale su Arisme sull’Agenzia per lo sbaraccamento. Un annuncio che fece drizzare le orecchie ai suoi sostenitori, pronti a rispondere alla chiamata alle armi e a scendere in piazza “contro la casta del consiglio comunale”. Qualche giorno dopo (il 9 settembre) ecco il bis, con De Luca che accusa i consiglieri di essere degli “asini volanti” e ribadisce l’intento di lasciare. Niente, anche qui.

La situazione precipita il 28 settembre, quando il sindaco passa dalle parole ai fatti (più o meno) rassegnando le proprie dimissioni da sindaco di Messina a far data dall’8 ottobre 2018 in ossequio a quanto precedentemente annunciato: «Resta inteso – spiega – che continuerò a svolgere compiutamente le funzioni di Sindaco di Messina sino al 7 ottobre 2018, con la medesima intensità ed impegno già profuso nell’espletamento del mandato ricevuto dalla comunità di Messina il 25 giugno scorso».

Appena qualche giorno dopo, l’1 ottobre, è tempo di comizi. Mentre tutti attendono un riscontro sulle sue dimissioni, annunciate già tre volte e messe quindi nero su bianco il venerdì precedente, De Luca lascia l’argomento in sospeso e se la prede con i sindacati: «Hanno stabilito che io debba essere ammazzato. Non ci spaventiamo né della mafia né degli attacchi mafiosi», sbotta davanti a una piazza Municipio (ancora) stracolma.

Arriva quindi la fatidica data del 16 ottobre, con la votazione in Aula del Salva Messina e la revoca delle dimissioni. «E adesso lascio il mio incarico all’Ars», commenta il sindaco, che però torna sui suoi passi 24 ore dopo, quando il suo successore, Danilo Lo Giudice, gli chiede di “tenergli caldo il posto” da deputato regionale ancora per un mese e qualcosa. “Va bene Danilo! Vediamo se posso rimanere in carica fino a fine novembre ma non oltre!”, acconsente il sindaco di Messina nel corso di un curioso siparietto tra i due.

Tutto finito? Macché. Passano due giorni e riecco lo spettro delle dimissioni: De Luca dichiara che non vuole essere il sindaco che dichiarerà il dissesto. In caso di default si dimetterà da primo cittadino, farà le valigie e si trasferirà in pianta stabile a Palermo. Segno che la recente paternità di Danilo Lo Giudice c’entrava poco con la sua decisione di procrastinare le dimissioni dall’Ars.

La svolta, sul fronte regionale, avviene il 21 ottobre, nel corso di un altro comizio: De Luca annuncia il suo addio al Parlamento regionale (“Ho indugiato perché dovevo persuadere il consiglio comunale”), formalizzato poi il 24, e contestualmente svela il suo grande obiettivo: «Il mio sogno è tornare a Palermo da Governatore: il mio non è un addio, è un arrivederci».

Si chiude il 2018 e il nuovo anno si apre sulla falsariga del precedente, con un comizio di Capodanno all’insegna degli attacchi (qualcuno inedito, la maggior parte già lanciati): il sindaco trascorre letteralmente un’ora e mezza sul palco a prendersi questioni con chiunque, dai dirigenti ai dipendenti, dagli ex direttori generali delle partecipate ai nemici politici. In più conferma tutta la Giunta, che proprio il giorno prima aveva rassegnato le dimissioni, (una mania che evidentemente è contagiosa).

Circa un mese dopo riecco le dimissioni, non da primo cittadino stavolta, ma da sindaco metropolitano, formalizzate poi il 1 maggio con la consegna in Prefettura della fascia blu per protesta contro il default delle ex Province regionali. Un mese dopo, a giugno, sarà invece la volta dello sciopero della fame più breve della storia.

Dopo qualche mese i stand-by, la tregua apparente con il consiglio comunale termina il 12 giugno del 2019 , giorno in cui De Luca torna a minacciare le dimissioni a causa del rifiuto dell’aula di trattare la delibera di fuoriuscita dalla fondazione Taormina Arte (che lui stesso aveva chiesto di posticipare un mese prima). “Condurrò la mia azione amministrativa fino a dicembre”, annuncia, affidandosi alla Madonna di Montalto, “che oggi ho avuto la possibilità di venerare”. Passano nove giorni e il sindaco ribatte la palla in campo avversario che nemmeno John McEnroe: «Vogliono le mie dimissioni immediate? Si dimettano prima loro», riferendosi ai 32 consiglieri, accusati (fra le altre cose) di sciacallaggio nei confronti dei lavoratori e di fare ostruzionismo nei confronti della città. Tuttavia ribadisce: «Ho già detto che a dicembre chiudo questa esperienza».

Trascorso fischiettando dicembre, parte l’estenuante faida sul “cambio di passo”, e di nuovo si ricomincia con i ripetuti annunci di un passo indietro in mancanza di fiducia da parte dell’Aula e la nuova “data fatidica”: «Ho saputo ufficiosamente che si dovrebbe votare o il 24 o il 31 maggio. Le mie dimissioni saranno presentate tra il 20 ed il 29 marzo», ha annunciato il 20 gennaio.

Ieri, infine, l’ultima retromarcia. In attesa del nuovo “ultimo appello”, che dovrebbe essere in stand by per almeno un anno, stando al voto di ieri. Ma non si sa mai.

 

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