“Da una parte ci sono rupi aggettanti, contro cui si frange
con grande fragore l’onda di Anfitrite dagli occhi scuri:
gli dèi beati le chiamano Le erranti.
Di lì non passano neppure gli uccelli, né le trepidanti
colombe, quelle che a Zeus padre portano ambrosia.
Sempre qualcuna ne toglie la roccia liscia,
e il padre un’altra ne manda che ristabilisca il numero.
Di lì mai sfuggì nave di uomini che vi fosse giunta,
ma tavole di navi e insieme corpi di uomini trascinano via
le ondate del mare e i vortici di fuoco funesto.
Una sola nave di lungo corso di lì è riuscita a passare,
Argo da tutti celebrata, che tornava dal paese di Aieta”.

I versi che descrivono l’ardua impresa di Ulisse nell’attraversamento dello Stretto di Messina lasciano il lettore di oggi ancora con il fiato sospeso. Eppure, probabilmente l’Odissea è lo scritto più antico da cui ci giunge una dettagliata descrizione delle nostre terre: le “rupi erranti”, dai più identificate con i faraglioni di Lipari, contro cui le navi andavano a cozzare vinte dalle correnti, come se questi scogli stessi si muovessero contro i natanti, lo Stretto impenetrabile, largo quanto “un tiro di freccia” e la Trinacria, la terra con i tre promontori (treis àkra), isola sacra al dio Sole.

Omero ci racconta di un passaggio epico, quello di Ulisse (o, secondo la dizione greca, Odisseo) che, diretto all’isola dei Feaci, è costretto ad attraversare lo Stretto, quando ancora Messina, e neppure la sua antenata Zancle, erano state fondate.

Se superare le rocce vaganti non era stato affatto semplice, una ancor più difficile impresa attende Ulisse e i suoi compagni. Lo Stretto è un passaggio inaccessibile, contornato da due rupi, sorvegliate da due mostri femminili. Da un lato Scilla, dal volto e petto di donna dai cui fianchi spuntavano sei teste di cane. Dall’altro Cariddi, un mostro in grado di inghiottire e risputare l’acqua di mare tre volte al giorno, formando enormi e terribili gorghi.

Lì dentro abita Scilla dal latrato inquietante:
la sua voce è pari a quella di una cagnetta poppante,
ma essa è invece un mostro malvagio, e nessuno
a vedersela di fronte gioirebbe, nemmeno un dio.
Dodici sono i suoi piedi, e tutti malformati,
ha sei colli lunghissimi, e ciascuno ha una orrida
testa, e in ognuna ci sono tre file di denti,
moltissimi e fitti, pieni del nero della morte.
Per metà sta sprofondata nell’antro profondo,
ma dal terribile baratro tiene fuori le teste.
Qui pesca, frugando lo scoglio all’intorno,
delfini, pescicani e mostri più grandi, se càpita,
afferra, quanti innumerevoli nutre la mugghiante Anfitrite.
Di lì con la nave nessuno si vanta di esser fuggito
indenne da morte; con ogni singola testa un uomo si prende: lo afferra da sopra le navi dalla prora scura. 

Sono le parole di Circe a mettere in guardia Ulisse e a prepararlo alla dura, ma inevitabile, scelta, che lo porterà a preferire di affrontare Scilla, perdendo sei uomini, anziché Cariddi, che avrebbe comportato la perdita dell’intera nave.

L’altro scoglio vedrai, Ulisse, molto basso, l’un all’altro
vicini: un tiro di freccia la distanza percorre.
Su di esso è un gran fico selvatico, fiorente di foglie.
Sotto, Cariddi divina risucchia l’acqua scura.
Tre volte al giorno emette, tre volte risucchia,
terribile. Che tu non sia lì quando inghiotte:
nemmeno l’Enosictono ti salverebbe da morte.
Accòstati molto allo scoglio di Scilla e presto
porta fuori la nave. Molto meglio sei compagni
piangere sulla nave che non piangerli tutti’.

Omero, l’autore tradizionale dei due poemi epici capisaldi della mitologia greca, l’Iliade e l’Odissea è anch’egli un personaggio che sfiora il mito. La sua stessa esistenza, che sarebbe databile fino a 3000 anni fa, era già stata posta in dubbio fin dai tempi antichi (dal III sec. a.C., presso la scuola filologica di Alessandria d’Egitto). Omero poteva dunque essere un nome mitico a cui, già nell’antichità, veniva attribuita la paternità di canti epici tramandati oralmente di generazione in generazione, in un momento in cui la stessa scrittura non era ancora stata introdotta. In alternativa, Omero potrebbe anche esser stato il primo a fissare con la scrittura poemi che precedentemente erano affidati esclusivamente alla memoria dei poeti.

Nella tradizione, Omero è spesso considerato «divino»: avvolto dalla leggenda, è immaginato cieco (Omero significa “colui che non vede”), ispirato direttamente dalle Muse. Alla stregua di un dio, in suo onore si erigono statue e si costruiscono santuari. Nella Stanza della Segnatura in Vaticano, summa della cultura umanistica, accanto alla celeberrima Scuola di Atene, si trova il Parnaso (1510), in cui Omero viene dipinto da Raffaello Sanzio in primo piano vicino a Dante, il quale guarda verso Virgilio. Proverbiale è anche la devozione che Giacomo Leopardi tributa ad Omero.

Tutti conoscono le sue opere, già da ragazzi. Le scuole di base di moltissime culture in tutto il mondo mettono i poemi omerici tra i primi testi di studio. I suoi personaggi hanno ispirato innumerevoli riproduzioni, tele, stampe e scritti in tutte le lingue, fino alla modernità. Spesso sono diventati anche fonte di ispirazione pop per film, cartoni animati, fumetti e saghe di supereroi. Omero è anche una fonte diretta di ispirazione di viaggio. Moltissimi sono i turisti e gli appassionati che ogni anno vengono a vedere lo Stretto di Messina, che ospita, ancora oggi, nella fantasia dell’avventura, Scilla e Cariddi.

Molti sono i Comuni e le amministrazioni che hanno dedicato vie ad Omero, in tutta Italia (Milano, Roma e Palermo tra le tante); la nostra città che è tra le più debitrice nei confronti del mitico aedo, non l’ha mai ricordato in nessun luogo.
FiGi

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