Ernesto de Martino (che volete farci, è una mania questa mia) diceva che per poterci aprire alle identità altrui dobbiamo essere bene fondati sulle nostre. Egli si contrapponeva in tal modo al relativismo culturale, assai di moda negli anni sessanta, quella concezione che poneva tutte le culture sullo stesso piano e teorizzava che si potesse allegramente trascorrere dall’una all’altra, posto che tutte avevano la medesima dignità e fosse pertanto lecito non abbracciarne alcuna in particolare ma abbeverarsi, a seconda del momento, all’una o all’altra, magari abdicando temporaneamente alla propria.

Il pensiero di de Martino è viceversa alquanto più articolato. Il riconoscimento della pari dignità di ogni cultura non comporta automaticamente che tutte le culture siano uguali. Esse hanno avuto una storia diversa, ed è pertanto vano, e oltremodo velleitario, pensare che il passaggio dall’una all’altra possa avvenire in modo indolore, perché ognuno di noi si porta appresso la propria storia individuale e la storia della “civiltà” che nel proprio angolo di mondo le generazioni hanno faticosamente costruito. Quello demartiniano non era però il cieco arroccarsi e permanere entro il cono d’ombra della propria cultura, il suo era un etnocentrismo critico, assai attento ai guasti e alle tare della cultura di appartenenza e disposto all’apertura verso le altre visioni del mondo a condizione, appunto, che tali aperture non si traducessero in una deriva culturale, in un cieco abdicare alle proprie radici per abbracciare acriticamente quelle maturate in contesti storico-sociali assai distanti dal proprio.

Perché ho fatto questa premessa? Perché mi pare che al giorno d’oggi sia sorto un grosso equivoco rispetto alle forme d’identità che ognuno di noi è chiamato a esibire nella vita quotidiana e, più in generale, nel corso dell’esistenza.

Mettiamola così. Ci sono identità “genuine” e identità “spurie”. Quelle genuine non sono certo quelle esibite dai leghisti e da coloro che parlano di “identità forti”. Sotto questo profilo dire Padania e dire Messinesità si equivalgono, in quanto in entrambi i casi si spacciano per realtà identitarie ideologie o velleità costruite a tavolino, dai caratteri immutabili e impermeabili alle “contaminazioni” esterne.

L’identità genuina è fluida, composita, stratificata, contaminata, sempre aperta e disponibile ad arricchirsi con ciò che la storia va ad aggiungere alla sua natura.

La cultura siciliana è un esempio pregnante di tale realtà. Come potremmo noi separare e lobotomizzare i singoli apporti che ogni civiltà ha prodotto in Sicilia lasciando dietro di sé, e ben oltre la propria permanenza, tracce materiali e immateriali dei propri sistemi di pensiero, delle proprie tecnologie, dei propri assetti sociali, senza con ciò amputare di preziose tessere il variegato mosaico di cui si compone ciò che oggi viene, anche a livello istituzionale, denominato pomposamente “identità siciliana”?

Ho piena consapevolezza che un tal modo di intendere l’identità suoni scomodo agli occhi e ai cuori di quanti con il concetto d’identità siano usi costruire una sorta di clava ideologica pronta a bastonare tutto quanto non rientri nella loro ottica. Per costoro, un’identità cristallizzata, ancorché fasulla, rimane l’ultima spiaggia per difendere i localismi, le false tradizioni, le ottiche provinciali con cui si ostinano a guardare il mondo. Queste ottiche stanno, con ogni evidenza, all’origine dei sovranismi, degli esclusivismi culturali, degli integralismi, a volte anche dei razzismi.

Su queste brevi riflessioni di tarda estate, annoiata e drammatica tra Covid, Talebani e continue farse locali, mi sia consentito citare un poeta, Gianni Rodari, che molto meglio di quanto io abbia potuto esprimere centra il cuore del problema (che non è forse il “to be or not to be”, quanto piuttosto il “to love or not to love”):

Il cielo è di tutti

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi
di ogni occhio è il cielo intero.

È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.

Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.

Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,
in prosa o in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la Terra è tutta a pezzetti?

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