(Questo articolo, autobiografico, è apparso originariamente nel 2005 sulla rivista “Superwheels”, in occasione del primo titolo mondiale del crossista di patti Antonio Cairoli, e poi ripreso nel 2013 dalla rivista “Motociclismo”, in occasione del settimo alloro del campione messinese)

 

E’ il 1996.
Avere vent’anni e considerare con un pizzico di malinconia come il progetto di diventare pilota ufficiale e campione mondiale di enduro classe 125 diventi sempre più remoto.
 Pensare queste cose mentre si viaggia sul retro del furgone e ogni accelerazione ti fa sbattere il rene destro contro la pedana di una moto da cross ed ogni frenata ti fa arrivare addosso una decina di kg di abbigliamento tecnico da fuoristrada. Domandarsi quanto manca all’arrivo, perché la cripta in cui siedi non ha finestre, solo moto, borsoni, cassetta degli attrezzi e taniche di benzina. ”
Ale 216″, c’è scritto su una di queste: il tuo nome ed il tuo numero nel campionato regionale di enduro, classe 125, categoria Promozionali. In pratica la schiuma fetente della disciplina, quelli ai quali tutti, ma proprio tutti, passano sulle orecchie senza pietà, umiliandoli e scomparendo veloci all’orizzonte facendo cose apparentemente impossibili (lì impari a spegnere il cervello e osare molto oltre quello che credevi fosse il limite). Finalmente si spalanca la porta del furgone, la luce invade l’antro claustrofobico. La polvere anche. Ci si stiracchia, si esce. Posare lo sguardo su salti di venti metri di lunghezza, rampe ripide tipo muro, whoops a decine, in rapidissima sequenza. Aiuto!

Che t’aspettavi? Se vieni dall’enduro non ti spaventi di fronte a fiumi da guadare, pietraie da scalare che pure una capra di montagna rinuncerebbe, sottoboschi da percorrere a centoventi all’ora con radici che cercano di ghermirti, gare di sette ore sotto la neve. Ma questo è il motocross. Trascorri in aria più tempo di quanto non passi con le ruote per terra. Tieni aperto il gas anche quando l’istinto di sopravvivenza ti consiglierebbe di chiuderlo. Ti lanci verso il niente dopo sei secondi di decollo con lo stomaco in bocca, mentre sotto tutti sembrano piccoli piccoli. È il motocross.

Deglutire a fatica. Scaricare la moto dal furgone, rabboccarla di miscela all’1,3% di benzina ed olio da enne euro al litro manco fosse un Brunello di Montalcino del ‘95. Rivolgere un’occhiata furtiva al triplo prima del traguardo, ripetendo fra sé e sé che eseguire una manovra del genere è da gente assolutamente flippata. Ma flippata forte. Chiedersi: ma chi te l’ha fatto fare… Iniziare intanto la vestizione. Ginocchiere. Gomitiere. Fascia Lombare. Pantaloni. Pettorina. Maglia. Stivali. Guanti. Casco. Occhiali. Mazinga combatte con un’armatura meno complicata. Avere vent’anni e considerare con un pizzico di malinconia, guardando chi gira insieme a te e cosa riesce a fare, come il progetto di diventare pilota ufficiale e campione mondiale di enduro classe 125 diventi sempre più remoto . Vabbè. Tornare in sé.

Mettere in moto, riscaldare il piccolo ma pepatissimo motore di 124,9 cc, regolare forcella e ammortizzatore per gli atterraggi pesantissimi che ti aspettano, sedersi sulla moto, sgasare due, tre volte. E poi parlarle.

Pensaci tu, piccola, che io qui non so cosa fare. Guidami tu, tu che nel DNA hai i campionati del mondo vinti e rivinti, le braccia muscolose ed il polso destro snodabile di tutti quei campioni col gas facile. Fammi volare, piccola, fammi diventare leggero come il vento e veloce come una saetta.

Respirare a fondo.

Acquisire consapevolezza.

Inalare coraggio.

Esalare paura.

Inalare classe.

Esalare mediocrità.

Inalare forza

Esalare dubbi.

 

Partire, in piedi sulle pedane, leggero, esaltato. Sentirsi invincibile mentre si percorrono metri su polverosi metri. A terra e in volo. Affrontare la pista con la cattiveria di un Berzerker. Digrignare i denti. Entrare in curva trenta chilometri orari in più di quanto credevi fosse ragionevole. Galleggiare sulle buche, aggredire gli appoggi, derapare di potenza, controllare la piccola moto che impenna imbizzarrita, che sembra un duemmezzo da quanto va forte.

Cadere.

Rialzarsi, più cattivo di prima. Più veloce di prima. E più di quanto non si sarebbe mai immaginato.

Volare, col cuore in gola e fiotti di adrenalina pompati nelle vene. Puntare il tizio di fronte a te con la moto gialla numero trenta. Guadagnare terreno in curva e prenderlo sui salti. Osare ancora. Più in alto. Più in lungo. Aprire il gas con violenza in uscita di curva. Affiancarlo. Decidere di affrontare il triplo che fa paura anche solo a guardarlo. Saltare col respiro mozzato. Superare il numero trenta. Gridare, dentro il casco, un Sììì! che sembra un orgasmo. Il numero trenta ormai è storia. È fatta. Cominciare a riconsiderare l’affare campionato del mondo da una prospettiva più rosea. È già passato un giro, riaffronto il triplo. Sembra più facile.

All’improvviso un’ombra.

Sopra la testa.

Verde. Piccola.

Veloce. Di più.

Ti supera. È una minimoto. Minicross. Settantacinque di cilindrata.

La guida un bambino* di sette anni.

Che ti è passato sulla testa.

Sul triplo.

Senza pietà.

Sulla testa.

Con una minicross.

Una minicross, per Dio, di 65 cc di cilindrata.

Ha sette anni. Tu ne hai venti, un centoventicinque e programmi di carriera ambiziosi.

Sopra la testa. Proprio sopra.

È il motocross baby.

È il motocross.

 

* Il bambino di sette anni si chiamava Antonio Cairoli. Allora ne dicevano un gran bene. Nel 2005 Tony ha vinto il mondiale di motocross classe MX2. A diciannove anni. Oggi, che di anni ne sta per compiere trentadue, ha vinto il nono titolo iridato. 

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