Recitava un’amena boutade apparsa anni or sono su manifesti della Regione Siciliana che “in Sicilia turismo è cultura”. Mai frase fu meno veritiera, mai slogan più mistificante di questo. In Sicilia turismo è esercizio oculato di rapina nei confronti di visitatori annoiati o distratti, o viceversa fruizione frettolosa ed esercizio usaegetta di fagocitazione onnivora di patrimoni dei quali si continua a ignorare la storia e il senso.

Se questa (fatte salve poche lodevoli eccezioni) è la situazione del turismo così come esso è praticato qui da noi, c’è da rilevare che a Messina i flussi turistici, negli ultimi anni divenuti per certi versi imponenti a causa di politiche crocieristiche e non certo per lucida politica di accoglienza, hanno rivelato in maniera esemplare tutte le carenze di una città che dovrebbe limitarsi a esibire onestamente le proprie identità e che viceversa mostra quotidianamente la propria triste condizione di “messinscena” (per riprendere le acute considerazioni di Marco d’Eramo nel suo Il selfie del mondo).

Mi provo allora a riflettere sulle cause di questa clamorosa perdita di appuntamento con le opportunità offerte dalla globalizzazione (le quali sono tanto poche che perderne alcuna è un vero crimine).

La fruizione dei beni culturali nella prospettiva di una moderna concezione del turismo trae la propria ragione d’essere dalla nuova sensibilità che le moderne scienze dell’uomo hanno definitivamente imposto in tema di dinamiche interculturali, nella particolare prospettiva dell’incontro tra genti e culture diverse.

Un tempo, nell’epoca in cui i beni culturali si chiamavano “patrimonio storico-artistico”, tale termine veniva impiegato per definire tutte quelle particolari categorie di “oggetti” costituenti dei merit wants, dei bisogni meritori, da soddisfare secondo le “concezioni del desiderabile”, i quadri di riferimento e l’ideologia complessiva della classe dominante all’interno del sistema sociale che li aveva espressi.

Con una tale operazione, di natura solo apparentemente linguistica, si finiva in pratica con l’occultare sotto una medesima onnicomprensiva coltre l’enorme varietà e ricchezza dei tratti culturali che caratterizzavano la società nel suo complesso. La coltre, per continuare la metafora, nascondeva cioè come un sudario, decoroso ma mistificante, il brulichio reale dell’umanità che si muoveva sotto la sua apparente compostezza; e su questa umanità si ravvisava l’opportunità di non fissare lo sguardo.

In questa situazione, gli oggetti e i contesti cui si annetteva un qualche valore “culturale”, si stagliavano come stelle fisse in un firmamento privo di chiarore diffuso; i beni culturali venivano, dunque, colti nella loro veste di massi erratici piuttosto che considerati parte di un più ampio universo di segni per entro il quale ogni elemento racchiudesse senso e valore.

Il pregiudizio, tipicamente borghese e di matrice idealistica, consistente nel privilegiare sempre e comunque l’individualità, sbarrava la strada a una comprensione globale dei contesti; si ammiravano determinati alberi, e non ci si accorgeva che essi facevano parte di una foresta lussureggiante. Il lettore operaio di Bertold Brecht si chiedeva giustamente: “Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? / Ci sono i nomi dei re, dentro i libri / Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?….

Al progressivo smantellamento di questa percezione distorta della realtà contribuì in misura non irrilevante un nuovo concetto di cultura, quello che venne enucleandosi dalle discipline etno-antropologiche, nate come ambito di studi nella seconda metà dell’ottocento, ma affermatesi stabilmente e con effetti di rilievo anche sul comune sentire, almeno nel nostro paese, solo a partire dall’ultimo dopoguerra. La cultura cessò infine di essere considerata patrimonio di pochi uomini o di pochi gruppi umani per divenire il segno distintivo dell’uomo in quanto tale.

Il bene culturale venne conseguentemente individuato attraverso nuove coordinate: si giunse pertinentemente a riconoscere che esso fa parte di un contesto territoriale che lo esprime.

Tale consapevolezza contrassegna, sia pure ancora in modo discontinuo e contraddittorio, la nostra modernità, in un momento storico in cui si avverte in tutta Europa l’esigenza di ancorare gran parte dell’economia e delle dinamiche culturali a processi di valorizzazione delle “piccole patrie” e di elementi pregnanti dell’identità storica locale (sia chiaro, con tutte le distorsioni e gli eccessi autarchici che a volte ne derivano).

Il progetto di proporre all’utenza itinerari e beni “minori” e poco toccati dai tradizionali circuiti appare pertanto congruo anche sotto il profilo di una nuova e più meditata strategia di turismo culturale in linea con i parametri europei e con la giusta esigenza di contemperare le istanze connesse a uno sviluppo economico sostenibile e quelle relative alla valorizzazione di beni culturali storicamente configuratisi quali segni dell’identità civica.

La nuova attenzione nei riguardi del territorio trae origine dalla sopraggiunta consapevolezza che lo spazio naturale è, per definizione, inconoscibile dall’uomo; che pertanto ciò che l’uomo può ragionevolmente sperimentare e conoscere è unicamente quello che sia già stato filtrato con un processo di plasmazione. Solo in tal caso la natura si presenta “umanata”, carica di storia umana; essa subisce così una trasfigurazione a opera dell’uomo, che se ne appropria attraverso costanti esercizi di conferimento di senso.

Una concezione del territorio come ente non meramente fisico è dunque quella di spazio differenziato, di contenitore di memoria in cui si depositano e si stratificano gli esiti delle strategie poste in essere dall’uomo per sopravvivere a se stesso, come specie produttrice di storia. Naturalmente tali strategie si sostanziano della pluralità di segni che gli uomini hanno impresso con le proprie culture sul territorio, ed è proprio la conoscenza e la fruizione non epidermica di tali segni che costituisce la più intima ragione del viaggiare e dell’attività turistica, laddove il turismo non sia svilito al rango di un vuoto usa e getta in cui sostanzialmente il viaggiatore si rifiuti di aprirsi alla diversità degli altri e preferisca continuare a specchiarsi nei propri modelli culturali o tutt’al più fruire in modo veloce e distratto, con meri atteggiamenti di pirateria turistica, i beni culturali, i modi di vita e la cultura degli altri.

Il declino, ad esempio, delle funzioni che storicamente sono state ricoperte dalla piazza, dai luoghi importanti e dai beni-emergenze ha fatto sì che nuovi siti e nuovi beni culturali acquistassero pregnanza e titolo a rappresentare il genius dei vari luoghi. La piazza, il centro storico in senso più ampio, non erano altro in fondo che i luoghi in cui andavano a scaricarsi determinate tensioni, determinati processi sociali, produttivi, rituali, cerimoniali che si innestavano e si verificavano in tutto il più ampio areale presentante tratti di omogeneità economica, culturale, ideologica.

Il turista contemporaneo consapevole di tutte le potenzialità presenti nella fruizione turistica vuole proprio ricevere informazioni che gli permettano di sintonizzarsi con tali coordinate di ordine storico, antropologico, esistenziale, intende lasciare aperti davanti a sé tutto il fascino e tutte le incognite di un incontro non banale tra forme di umanità, di strategie e di beni culturali differenti.

Un grande etnologo italiano, Ernesto de Martino, ha scritto una volta che questo nostro pianeta è oggi divenuto troppo stretto per poter tollerare semplici coesistenze; ciò vuol dire che se ci pare preferibile non sopportarci a vicenda, magari guardandoci in cagnesco, ma riteniamo più utile e più giusto per la nostra specie approfondire sempre più il grado di conoscenza reciproca, unico strumento per il raggiungimento di una sempre maggiore consapevolezza sulle radici comuni che fanno la nostra comune umanità, la via da percorrere sia quella di promuovere sempre maggiori e non banali occasioni di incontro, conoscenza e scambio tra gli esseri umani. In tale strategia, il turismo culturale è chiamato a ricoprire un ruolo di assoluta pregnanza.

Perché scrivevo poc’anzi che si è perso a Messina un treno che avrebbe potuto davvero portarci assai lontano? Perché a Messina la realtà che ne ha per secoli delineato l’identità, ossia il mare, ha subìto negli ultimi decenni una sostanziale e devastante rimozione, tanto dalle politiche istituzionali quanto dall’immaginario collettivo.

Il mare rappresenta l’orizzonte naturale di molte civiltà, e non sono indifferenti, rispetto alle determinazioni da queste storicamente assunte, i modi in cui le culture locali hanno percepito tale elemento.

Il mare, dunque, come luogo. Luogo di coesistenze e di stratificazioni semantiche, come tale luogo per sua natura polisemico e proteiforme. Mare placenta, brodo di coltura, involucro che dà e fa crescere la vita. Coltre che avvolge ma che a volte rischia di soffocare. Elemento morbido e “cullante” ma al contempo infido e cangiante. Mare superficie e abisso, che fa galleggiare e sprofonda. Mare luogo di continui viaggi, partenze, ritorni, transiti, attracchi, avventure, naufragi, smarrimenti; topos delle nostalgie e dei desiderî, delle utopie e delle solitudini. Mare come esito e metafora del mistero insondabile della natura, come luogo di epifanie, in cui il sacro – a volte – si manifesta; come teatro dell’inconscio, palcoscenico di multiformi metamorfosi. Mare che unisce e divide popoli e culture, luogo in cui si esercitano attività dalla storia secolare (pesca del tonno, del pescespada, raccolta del corallo, produzione del sale, molluschicoltura etc.). Mezzo e fine, contesto e materia prima.

Da che mondo è mondo, l’avventura sul mare ha comportato la conoscenza di tecniche volte ad approntare i mezzi per attraversarlo, utilizzarne le risorse, fronteggiarne i rischi. Se dobbiamo stare alle fabulazioni prodotte in seno alle più antiche culture, l’uomo di mare, comunque esso sia stato denominato, ha sempre ricoperto un ruolo di primo piano nel panorama sociale. Dalla Bibbia ai poemi omerici, dalle mitologie nordiche a quelle delle culture polinesiane, la storia dell’uomo si dispiega sempre all’interno di questo orizzonte, realistico e simbolico a un tempo, che è l’enorme distesa acquea che circonda le terre emerse e che, stando alle cosmogonie, costituiva la prima e unica realtà prima che l’azione creatrice di Dio venisse posta in essere.

Questo mare, di cui il fretum siculum costituisce un mobile tentacolo, ha rappresentato da sempre il naturale orizzonte – fisico esistenziale antropologico – per una città ombelico del Mediterraneo che sul mare ha costruito le sue glorie, secolo dopo secolo (dalla fine del terzo millennio a.C. allorché la Falce venne abitata da popolazioni indigene fino agli anni ’60 del Novecento), e ha celebrato i suoi fasti, trovandosi al contempo equidistante e luogo di interferenze tra nord e sud, tra est e ovest. In ragione di tale peculiare posizione Messina ha registrato nel corso del tempo il passaggio e spesso lo stanziamento di numerosi popoli e culture, portatori di forme assai diverse di civiltà; a seguito di ciò lo Stretto si è venuto costituendo come un palinsesto territoriale che ha visto progressivamente stratificarsi contesti, fenomeni e realtà “immateriali” di varia natura, fabulazioni, saperi, memorie che dal mondo antico fino a oggi hanno continuato a segnare con la loro molteplicità lo specialissimo habitat antropologico che si è determinato in questo tratto di mare, finendo con il costituire un unicum di cui non esiste eguale.

Poi, con un incredibile cupio dissolvi, la città ha iniziato a rimuovere la presenza del mare dal proprio contesto territoriale, a non considerarlo più un orizzonte plausibile e “domestico”, a non dialogare con esso. Il mare è divenuto realtà opaca, ininfluente, non più in grado di fornire margini di speranza e di operatività a coloro che, per avventura, ancora a esso intendessero volgere il proprio sguardo.

Oggi si continua a blaterare di “recupero dell’affaccio al mare”, di “rilancio della cantieristica” o di water front fingendo di non sapere che una sciagurata linea tramviaria ha per sempre separato la città dal suo mare; che i gloriosi cantieri navali messinesi sono stati sistematicamente smantellati e svenduti; che i mastri d’ascia sono una razza in via d’estinzione al pari dei panda; che una larga fetta della Zona Falcata (probabilmente il più pregnante Genius Loci che questa città abbia mai avuto) è da decenni un caravanserraglio di materiali in discarica e di sostanze inquinanti; che lo Stato ha smantellato il proprio sistema di collegamenti marittimi, consolidando di fatto un monopolio che si è rivelato sempre più contrario alla qualità della vita dei messinesi; che alcuni anni or sono una Nave Traghetto carica di memorie come la “Cariddi” è stata fatta affondare tra l’indifferenza colpevole di tutti.

Insomma, il rapporto tra Messina e il mare, un tempo idilliaco, è diventato conflittuale e astioso, come quello tra due coniugi che non si riconoscono più in un progetto comune.

Questo Stretto di Messina oggetto, nel corso degli ultimi quattromila anni, di dinamiche di “investimento di senso”, oggi rimane muto. Il porto di Messina, per secoli emporio incredibile per i commerci dell’intera area mediterranea (basti vedere i bei dipinti settecenteschi di Jakcob Philipp Hackert), è oggi ridotto a non luogo, inibito anche ai poveri pescatori che fino a vent’anni fa ne mantenevano una parvenza di utilità.

Un serio progetto di turismo culturale, oggi tristemente vagheggiato dalle povere guide turistiche che si affannano a rincorrere professionalità delle quali spesso sfugge loro la portata, oltre a creare servizi per soddisfare un bisogno di fruizione sempre più diffuso, dovrebbe porre in essere strategie consapevoli volte a fornire un’offerta turistica qualitativamente diversa, unica e peculiare. Intendo una forma di “turismo relazionale” che preveda la cooperazione e l’interazione di tutti gli attori coinvolti, ai fini del raggiungimento di uno scopo comune. Secondo tale prospettiva, l’individualismo che ha finora contraddistinto il turismo in Sicilia, e qui da noi a Messina in modo particolarmente gretto, è un disvalore.

Il turismo relazionale che vagheggio dovrebbe rivolgere particolare attenzione alle relazioni tra domanda e offerta turistica, ovvero tra “ospiti” (sempre più invitati a trasformarsi da turisti in viaggiatori) e residenti. Le nuove esigenze avvertite dalla società danno molta importanza alle relazioni interpersonali, le quali vengono ricercate anche in una vacanza. Sentirsi parte di un luogo, entrare in contatto con le comunità locali e partecipare alle loro attività, sono i desideri espressi da un numero sempre crescente di turisti. La vacanza è oggi una possibilità di evasione dalla realtà quotidiana, dai suoi ritmi e dalla ordinarietà delle relazioni che vi si instaurano. Il segmento della domanda turistica è diventato perciò più esigente ed è necessario che anche l’offerta si adegui a tali cambiamenti. Le strutture ricettive non possono più limitarsi a fornire un mero alloggio o una mera ristorazione ai propri clienti. Esse devono includere tra i servizi complementari attività che vanno dalle visite guidate alla degustazione di prodotti tipici, alla pratica sportiva e, in qualche caso, anche alla partecipazione ad attività ludiche, rituali, comunitarie del posto.

Un turismo culturale degno di questo nome dovrebbe pertanto essere percepito e organizzato come esito di una progettualità scaturente da una percezione del paesaggio quale realtà antropizzata, e in quanto tale archivio di culture susseguitesi storicamente, nell’ottica di un’attività pedagogica volta alla sua sempre migliore conoscenza e indirizzata a leggere e comprenderne segni, lessico, morfologia, sintassi, per riscoprire infine una grammatica dei luoghi che consenta a chi li visita di gustarne il genio e a chi li abita di tornare a ri-sillabarne la trama identitaria.

Ma dov’è la cabina di regia per tutto questo? Non certo nelle Istituzioni che si limitano a vivacchiare nascondendo dietro parole d’ordine ormai logore un vuoto impressionante di idee.

È velleitario sognare che la nostra città possa diventare “città turistica” come lo sono, ad esempio, Barcellona e Bilbao, Aix-en-Provence e Mont Saint Michel, Trieste e Alghero? E non si dica che Messina non ha da mostrare granché, avendo avuti distrutti i segni del proprio passata nel 1908. Castel Gonzaga è ancora là, e presenti sono pure la Badiazza, San Filippo il Grande, Santa Maria di Mili, Santa Maria Alemanna, la Chiesa dei Catalani, Cristo Re, Montalto, e i Colli San Rizzo e Dinnammare e i laghi di Faro e Ganzirri, e i forti umbertini e la straordinaria cinta di villaggi rimasti a ricoprire il ruolo di reale centro storico di Messina. E i mestieri. E le feste. E i musei. Cosa si è fatto per mettere in rete tutte queste realtà? La cultura a Messina non ha prodotto mai, finora, turismo culturale ma un esile panem et circenses.

E davvero pensiamo che sia possibile sfuggire a tale tetro cono d’ombra continuando a blandire il torpore dei visitatori con bancarelle da terzo mondo? Bah!

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