In questi giorni mi è capitato di fare alcuni discorsi con alcune persone, discorsi delicati con persone a cui voglio bene. In questi discorsi è emerso un forte malessere, la forza di lottare che quasi sta venendo meno per contrastare alcune situazioni che la vita ha imposto; dato che ho la fortuna di avere in concessione questo spazio una volta alla settimana, ho deciso che per quest’ultimo lunedì di agosto le cinque canzoni della playlist di LetteraEmme saranno dedicate a chi non scappa dalle proprie responsabilità, a chi accetta le sconfitte, le metabolizza e riesce a farne tesoro per il futuro. Questa playlist vuole essere carburante per ripartire, e allora accendiamo i motori e via così.

Offspring – The kids aren’t alright

Meta numero uno perché per me, in questi casi, si parte sempre da qua: era il 1998 quando Dexter Holland, leader degli Offspring, buttava giù questo brano manifesto. The kids aren’t alright riprende nel titolo il pezzo di storia cantato dagli Who mentre nel testo racconta le vite di quattro ragazzi, Jamie, Mark, Jay e Brandon, nomi probabilmente falsi ma storie realistiche, con cui Holland trascorse parte della propria adolescenza. Per un motivo o per l’altro tutti nel pezzo abbandonano i propri sogni, le loro vite prendono vie molto diverse da quelle che potevano essere le loro potenzialità, ma non c’è condanna neanche leggendo tra le righe, solo un’enorme compassione e un forte atto di accusa verso la realtà, definita il sogno più crudele ma che, aggiungiamo noi, può anche essere contrastata. A fatica, ma ci siamo.

 

Creed – My sacrifice

Ad aprile o maggio, parlando degli AlterBridge su queste pagine, non ho speso grandi parole per Scott Stapp, sostituito (Deo gratias) da Myles Kennedy nella migrazione Creed-AB. Tuttavia qualcosa di buono l’ha fatta anche lui, e una di queste si chiama My sacrifice, forse il brano più famoso della band di Tallahassee. Un brano che parla di sacrificare sé stessi per qualcun altro, di mettersi in secondo piano per un bene superiore, sia esso quello dell’amico o chissà cos’altro; Stapp abbandona una volta tanto l’interpretazione plasticosa e ruggisce sempre cavalcando l’onda del vedderismo, ma con un tocco personale che, qualora fosse stato utilizzato più spesso, avrebbe portato chi scrive queste righe ad apprezzarlo di più. In ogni caso, My sacrifice è un pezzone.

 

Echosmith – Cool Kids

Uhm. Tema: ci si può sentire emarginati da ragazzini anche se si è particolarmente attraenti? Lo svolgimento lo affidiamo a Sidney, unica figlia femmina nella famiglia Sierota che nel 2013 ha debuttato con questa hit mondiale, primo estratto del primo disco chiamato Talking Dreams. Sidney è oggettivamente una ragazza molto bella ma le parole di Cool Kids, le insicurezze cantate riguardo il non sentirsi come i compagni popolari, quelli che apparivano a proprio agio in ogni situazione sociale, ci restituiscono un importante retrogusto di verità. Il credere in sé stessi dipende da fin troppi fattori esterni, e ritenerlo solo figlio di un bell’aspetto sarebbe una sottovalutazione criminale della sfera mentale. Va comunque detto che i cool kids spesso crescono stronzi, quindi se non lo siete (o non lo siete stati) c’è la concreta possibilità che io non vi abbia mai insultati.

 

blink-182 – Adam’s song

Realmente un inno. Forse il miglior brano per descrivere il disagio post generazione X, il pezzo che meglio di praticamente qualunque altro ha descritto la solitudine, la depressione, il sentirsi alieni in un mondo in cui non puoi permetterti di fallire. I blink venivano dal successo di Dude Ranch e con Barker alla batteria al posto di Raynor pubblicarono nel ’99 Enema of the state, lanciato in orbita da What’s my age again? e da All the small things. L’atteggiamento più scanzonato dei due suddetti singoli, oltre che della maggior parte del disco, fanno da contraltare a lei, la canzone che parla di questo Adam, un ragazzo solitario che soffre nel silenzio della sua camera, della sua vita, e guarda tutto andare in frantumi. Ispirato a una vera lettera di suicidio e alla vita di Hoppus, il cantante allora unico single del gruppo, il brano dipinge come meglio non si potrebbe la cupezza di alcuni pensieri e dà comunque un lieto fine, perché va detto: saper stare da soli spesso può diventare la più preziosa delle virtù.

 

Kaos One – 1971

Ansia. Apnea. Un incubo è un sogno crudele, e il sogno più credele è la realtà. E quindi la realtà è un incubo, e negli incubi ci si salva da soli, quasi sempre. “Quando hai chiesto aiuto, silenzio assoluto”, rappa il maestro, Don Kaos, uno dei pilastri della cultura hip hop in Italia, in 1971, uno dei suoi pezzi più belli, estratto da quello che ad oggi è il suo ultimo disco, Coup de Grace. Il brano è forse la sintesi migliore del senso della playlist odierna, il cercare aiuto ma provare a salvarsi comunque da soli, perché niente arriva per caso. Il mio sfondo del desktop, in questi mesi, è una frase di Harry Kane: “La vita non ti porge niente, devi andare tu a prenderti ciò che vuoi”; Kaos in 1971 spiega meglio tutto questo con un ritornello meraviglioso che spiega che spesso l’unico ostacolo tra sé stessi e la salvezza sta proprio all’interno della propria mente: superato quel limite non esiste alcun avversario capace di sconfiggerti.

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