Il recente caso di Saman Abbas, la diciottenne ragazza pakistana uccisa barbaramente (come pare emergere dalle indagini) dai parenti solo per essersi rifiutata di accettare il matrimonio con un cugino che era stato deciso dal clan familiare, ci ripropone drammaticamente il tema della tradizione unitamente a quello, ad esso strettamente connesso, dell’identità.

Della ragazza, scomparsa a fine aprile, non è stato ancora rinvenuto il cadavere ma alcune intercettazioni mostrerebbero come la sua uccisione sia stata concertata dai suoi stessi genitori insieme allo zio e al cugino che intendevano farle sposare. Saman, prima di scomparire, aveva infatti confidato al ragazzo che amava di aver sentito la madre parlare con qualcuno della sua morte, vista come unica soluzione per quante, come lei, non si attenessero alle regole tradizionali pakistane. Un episodio tragico e mortificante per chi creda ancora nella capacità del genere umano di coltivare sentimenti di libertà, di rispetto della persona, di dignità congenita in ogni essere vivente. Un episodio rispetto al quale le uniche risposte possibili sembrano essere giustizia, integrazione e “laicità”, intesa nel senso della capacità di prescindere dalle tradizioni del proprio gruppo di appartenenza per abbracciare orizzonti più ecumenici. Non a caso le destre di ieri e di oggi hanno fatto e continuano a fare dei concetti di identità e di tradizione un uso strumentale, ieri in funzione antisemitica oggi in becera propaganda anti-islamica.

Qualcuno potrebbe osservare che si tratta di costumanze barbariche, proprie di popoli che non si sono ancora affacciati del tutto alla modernità, e ciò è in parte vero. È pur vero, tuttavia, che costumanze barbare si possono trovare presenti anche nella storia dell’Occidente eurocolto, e non in una storia remota ma assai recente, mi verrebbe da dire addirittura contemporanea…

Il famigerato delitto d’onore, in auge e di fatto organicamente inquadrato in una normativa giuridica parallela a quella presente nel Codice Penale, non è forse una realtà che ha segnato tante storie e tanti drammatici epiloghi familiari nella nostra isola e nel più ampio territorio nazionale?  Ricordo, a chi non lo sappia o lo abbia dimenticato, che il reato di adulterio venne abrogato nel nostro Paese solo nel 1968, e che per l’abrogazione delle disposizioni sul delitto d’onore (in pratica, fortissime attenuanti per chi avesse ucciso la consorte fedifraga) si dovette attendere l’anno 1981 (Legge 442 del 5 agosto), dopo l’introduzione del divorzio (Legge 898 del 1970) e la riforma del diritto di famiglia (Legge 151 del 1975).

 

Andando poi ai giorni nostri, quanta barbarie ancora alligna nella pratica dei femminicidi, uccisioni di mogli, fidanzate, amanti, quasi sempre “colpevoli” di recuperare per sé spazi di scelta e di libertà! E sempre a tali barbarie si accompagna il barbaro convincimento che queste aberrazioni siano giustificate da un costume, da una tradizione, da un’ideologia (quella maschilista) che ha stabilito una volta per tutte quali debbano essere i rapporti (di forza) tra un uomo e una donna.

Siamo dunque ricondotti a forme distorte di tradizione, quindi di identità. Un termine, questo, sempre più utilizzato per declinare realtà che nelle intenzioni di chi lo utilizza dovrebbero individuare stili di vita, visioni del mondo, forme di cultura dati una volta per tutte, immutabili, tetragone al cambiamento, e quasi sempre brandito come clava per contrapporsi con ostilità ad altre forme identitarie, elaborate all’interno di altre “tribù culturali” del nostro pianeta.

In realtà, l’identità, la sua costruzione, è sempre frutto di un incontro. Essa si costruisce e si declina appunto per differenziare ciò che siamo (o ciò che crediamo di essere) da ciò che sono gli altri (o ciò che crediamo gli altri siano). Non ci si confronta con il simile a sé, da che mondo è mondo ci si confronta sempre con l’altro da sé (òi bàrbaroi, dicevano i Greci), da ciò sortendone sempre uno “scandalo”, lo scandalo del dubbio, del rischio di messa in causa dei propri sistemi di rappresentazione, delle proprie visioni del mondo, e la conseguente dinamica di mutamento o persistenza che tale confronto sortisce nella propria tradizione, nella propria identità. Una persistenza, occorre rilevare, mai assoluta, dato che l’identità e la tradizione stesse non sono mai statiche, monolitiche, immutabili, ma sempre di nuovo vengono sottoposte a processi di negoziazione, in cui ciò che si perde viene compensato da ciò che si guadagna…

La questione identitaria è oggi più che mai centrale nella riflessione teorica contemporanea, ma suscita sentimenti e scelte di campo contrapposti. Antropologi come James Clifford (I frutti puri impazziscono), Néstor García Canclini (Culture ibride), Francesco Remotti (Sull’identità, Contro l’identità, L’ossessione identitaria) ritengono che il concetto di identità sia sostanzialmente superato, da non promuovere, dannoso in quanto veicolante atteggiamenti culturali integralisti e chiusi al confronto. Altri autori pongono piuttosto l’accento sulle capacità aggregative del termine, in grado di fornire orizzonti condivisi e orgoglio di appartenenza.

Di fatto, l’identità e la tradizione che di essa si nutre non sono realtà date, né date una volta per tutte e quindi sempre identiche a se stesse, ma piuttosto realtà frutto di elaborati processi di costruzione, e quindi, ne abbiano o meno consapevolezza i loro storici portatori, sempre dinamiche e sempre – in qualche modo – plurime, contaminate, “meticce”.

Se negli ultimi decenni si è venuto affermando un uso strumentale e perverso di tali concetti, ciò è da ascrivere forse alla sempre maggiore diffidenza che le culture e i gruppi umani hanno sviluppato nei confronti della diversità, in un pianeta in cui la globalizzazione ha ancor più incrementato i conflitti e i dislivelli tra gli uomini, gli stati, i popoli.

Proprio per questo avvertiamo oggi l’esigenza di declinare la complessità delle “identità” e delle “tradizioni” in ogni direzione, decostruendo le dinamiche sociali e di potere che istituiscono identità e tradizione come soliloqui autoreferenziali delle soggettività e come armi da puntare su chiunque esibisca tratti culturali diversi (indici, tali atteggiamenti, di un provincialismo mentale di fondo), per sviluppare invece le potenzialità umane vocate all’incontro, sulla linea di analisi e proposte etico-politiche che ci provengono dalla tradizione occidentale (dal Cristianesimo all’Illuminismo al Socialismo) e che antropologi come Ernesto de Martino hanno bene esemplificato (l’etnocentrismo critico; l’essere bene fondati sulle proprie radici, per potersi meglio aprire al mondo…..). Per comprendere, infine, che ogni “punto di vista” altro non è che la vista di un punto”.

Insomma, ciò che ordinariamente viene chiamato “identità” (ma lo stesso vale per il termine “tradizione”) altro non è che il frutto “impuro” di un articolato processo dialettico di aggregazioni culturali che si vengono storicamente componendo in un unicum sempre caratterizzato da spinte eccentriche e dinamiche, come tale in perenne precario equilibrio; una stratificazione dunque, esito di sovrapposizioni di “scritture” culturali (ciascuno dei minuti segni quotidianamente impressi dagli individui e dalle comunità nelle proprie pergamene territoriali) che nel corso del tempo interferiscono tra loro secondo meccanismi non sempre investigabili, creando realtà composite, logiche meticce, identità – di fatto – impertinenti.

Si può dunque aspirare a lavorare alla costruzione di forme “buone” di identità e di tradizione, che occorrerà recuperare e mantenere alla fine di un necessario lavoro critico – urgente oggi più che mai – su tali attitudini innate, utili a mantenere elementi simbolici di appartenenza. Rinunciare tout court a un uso “buono” di identità e tradizione sarebbe come gettare il bambino insieme all’acqua sporca (l’intolleranza che deriva dall’opacità degli sguardi…..); ma farvi ricorso quotidianamente per sottolineare ed enfatizzare in senso negativo o razzista le differenze tra i gruppi umani, i generi, le etnie, ecco, questo è un atteggiamento che oggi non ci possiamo più permettere, in un pianeta sempre più attraversato e funestato da sovranismi, integralismi, paure e diffidenza. Se non riusciremo a liberarci da queste zavorre ideologiche (la cattiva tradizione, la cattiva identità) il futuro che ci attende sarà certamente peggiore del difficile presente che stiamo vivendo. Ogni tradizione che non sia disposta ad accettare la sfida dell’incontro (e, perché no, della contaminazione) conaltre tradizioni si condanna a essere non altro che una gabbia mentale, una camicia di forza capace di cristallizzare tutte le potenziali risorse di creatività che ogni cultura possiede.

Non potrei concludere meglio queste riflessioni se non riportando le parole che Mahatma Gandhi rivolgeva ai missionari cristiani presenti in India: “È vero che ognuno di noi ha la sua particolare e personale interpretazione di Dio. È necessario che sia così, perché Dio abbraccia non solo la nostra minuscola sfera terrestre, ma milioni e miliardi di analoghe sfere e mondi su mondi”. E anche se noi possiamo dire su Dio le stesse parole, non è detto che esse abbiano lo stesso significato. Ma che importanza ha?

Se crediamo veramente in Dio non abbiamo bisogno di fare proseliti, né coi nostri discorsi né coi nostri scritti. Possiamo fare qualcosa soltanto con la nostra vita. La nostra vita deve essere un libro aperto, completamente aperto perché tutti la possano leggere. Oh, se soltanto potessi persuadere i miei amici missionari a vedere così la loro missione. Allora non ci sarebbero equivoci, sospetti, invidie né discordie fra di noi nelle faccende religiose, ma solo armonia e pace…

Io vi chiedo, chiedo a voi che siete missionari: non fate inconsapevolmente violenza alla gente con cui vivete? Vi assicuro che non rientra nella vostra vocazione sradicare la gente dall’Oriente!” (Freiheit ohne Gewalt).

I quali concetti, a ben vedere, erano stati icasticamente espressi già duemila anni fa da un giovanotto galileo, allorquando invitava a non versare vino nuovo in botti vecchie (Lc 5, 36-39), e parlando seduto su una montagna (Mt 5, 17-43: Avete inteso che fu detto agli antichi. Ma io vi dico….) affermava di non esser venuto ad abolire ma a dare compimento con nuova logica a ciò che la tradizione prescriveva.

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