Trecentocinque anni fa Messina fu teatro di un evento portentoso che fece parlare a lungo di sé, e i cui effetti trovano ancora eco (ancorché sempre più pallida …..) in una delle eredità immateriali più curiose che la città abbia sedimentato nel tempo: la lacrimazione di un Bambinello di cera.

In genere i miracoli, le apparizioni, le lacrimazioni etc., fenomeni tutti in qualche modo “misteriosi” fanno da battistrada a un approccio “apocalittico”, spesso morboso e quasi sempre retrivo e integralista, all’analisi dei fatti religiosi (gli ultimi tempi, la lotta contro satana nel mondo, i peccati del mondo moderno etc.).

Una riflessione antropologica su tali fenomeni che venga condotta senza alcun tipo di pregiudizio – né di ordine fideistico né di ordine laicistico – a mio parere non pregiudica né inficia il valore della vera fede, ma si sforza piuttosto di decifrare tali fenomeni collocandoli all’interno della società e della cultura entro le quali essi hanno avuto luogo.

Io, come cristiano, credo che Dio parli agli uomini attraverso una pluralità di segni, ma che – come già faceva quando calcava duemila anni fa le strade del mondo – ami farlo con delicatezza, cioè assumendo e utilizzando le forme di linguaggio proprie del tempo. E’ evidente che queste forme sono quindi storicamente determinate, come sono storicamente determinati i modelli culturali e gli universi mentali che emergono, ad esempio, dalle parabole evangeliche.

Benedetto Croce ebbe a dire una volta che per comprendere appieno il senso dell’illuminazione di Budda era indispensabile conoscere il prezzo del grano a Benares nel giorno in cui il Gotamo aveva vissuto la sua esperienza. Con ciò voleva significare che i fatti spirituali non vanno mai avulsi dai contesti socio-economici all’interno dei quali essi hanno avuto luogo. Un’antropologia storica matura potrebbe andare oltre tale affermazione giungendo a sostenere che le condizioni materiali dell’esistenza, i fatti fisiologici e le determinazioni sociali non invalidano in alcun modo il significato spirituale della vita.

Le lacrime e le lacrimazioni occupano un posto di tutto rispetto nella religione, e anche nelle leggende religiose presso molte culture.

Nel Vangelo di Luca si incontrano spesso persone che piangono lacrime purificatrici.

Il tema delle lacrime è spesso legato alla perla nelle credenze popolari: lo troviamo nei racconti cinesi e giapponesi che narrano le storie dei pescatori di perle che morivano e delle loro fidanzate o spose che li piangevano.

Si pensava anche il mollusco contenuto all’interno della conchiglia morisse dopo aver generato la perla e che questa fosse la sua lacrima.

La tradizione orale identifica Maria Maddalena come una prostituta che vede Gesù, piange ai suoi piedi, lo lava con le sue lacrime, lo asciuga con i suoi capelli e rompe un vaso di alabastro per profumarlo. Un’altra tradizione dice che dalle lacrime di Maria ai piedi della croce nacquero dei garofani. 

I proverbi popolari attribuiscono il fenomeno della notte di San Lorenzo al suo martirio sui carboni ardenti. Le stelle cadenti sarebbero le sue lacrime.

In alcune mitologie le lacrime acquistano una valenza creatrice e fondante. Nella mitologia dell’antico Egitto al principio della creazione, Rà – che era androgino – crea da solo Shu (la dea dell’umidità e della pioggia) e Tefnu (il dio dell’aria). Ma ad un certo punto essi si separano da lui, e cosi Rà per cercarli mandò il suo occhio alla loro ricerca. Quando l’occhio tornò con Shu e Tefnu, Rà pianse di gioia e le sue lacrime crearono l’umanità.

Le lacrime alludono sempre, pertanto, a un’epifania numinosa, a volte anche a un atto creativo. Sotto altra prospettiva, le lacrime si pongono come indubbio segno di purificazione attraverso la sofferenza (la lacrima lava la pena).

Nella Messina del settecento una statua in cera del Bambino Gesù iniziò a lacrimare, e continuò a farlo – in diverse occasioni – per oltre dieci anni. A partire da tale fatto, cui una sentenza del Tribunale ecclesiastico riconobbe il titolo di miracolo, si venne ancor più incrementando nella città una straordinaria devozione a Gesù Bambino che alcuni religiosi, e fra questi in primo luogo Padre Domenico Fabris, Cappellano della Chiesa di S. Gioacchino, già da tempo promuovevano presso la comunità locale attraverso la predicazione e l’organizzazione di svariate pratiche di religiosità popolare. Tra queste, una funzione in onore di Gesù Bambino che – a partire dal 1702 – veniva mensilmente celebrata nella Chiesa di San Luca.

Dieci anni più tardi Padre Fabris aveva deciso, per incrementare ancor più tale devozione, di costruire un oratorio e un presepe. Non essendo stata ancora realizzata dal plasticatore messinese Giovanni Rossello (autore di un pregevole presepe oggi custodito al Museo Regionale) la statuetta in cera del Bambin Gesù commissionatagli, per l’allestimento del presepe il sacerdote decise di utilizzarne una da lui posseduta, donatagli dal sacerdote Antonio Rizzo, realizzata cinquant’anni prima dal ceroplasta palermitano Matteo Durante, considerato il maestro del più famoso ceroplasta siciliano del XVII secolo, l’abate Gaetano Giulio Zummo (Siracusa 1656-Parigi 1701).

La lacrimazione della statua in cera, che ebbe luogo il 23 febbraio 1712, due giorni prima della consueta celebrazione mensile, stranamente non avvenne alla presenza di Padre Fabris ma di alcuni sacerdoti e laici, in particolare il Canonico Rizzo il quale, accortosi che le lacrime sgorganti dagli occhi della statua, ancorché da lui asciugate, continuavano a fuoriuscirne, corse a informare del fenomeno Padre Fabris.

Dopo la prima lacrimazione, altre ne seguirono, alla presenza di numerosi osservatori tra i quali Giovanni Rossello, e grande impulso si determinò in città alla devozione verso il Bambino.

Fin qui la cronaca. Per cercare di dar senso, a distanza di trecento anni, a un evento che si è sempre mantenuto in bilico tra un’accezione folkloristica, cui una pubblicistica deteriore si è ostinata a ricondurla, e un malinteso spirito illuministico che continua a leggerlo come espressione superstiziosa e arcaica di fede, occorre forse dispiegare lo sguardo ampio sotteso alla frase di Croce citata in apertura.

Nel 1674 Messina si era ribellata alla Spagna, con l’appoggio del re francese Luigi XIV, e per quattro anni era riuscita a mantenersi indipendente dall’impero spagnolo. Nel 1678, con la pace di Nimega tra Francia e Spagna, venne meno l’appoggio francese e la città subì la crudele riconquista degli Spagnoli. Dichiarata morta civilmente e privata di tutti i privilegi storici fino ad allora goduti, la città si avviò rapidamente verso una crisi profonda, ancor più peggiorata dalle diverse dominazioni che si succedettero nel corso del XVIII secolo, Savoia, Spagnoli, Austriaci e Borboni, nonché nel 1743 da una terribile peste e nel 1783 da un violento terremoto, che infersero ulteriori durissimi colpi tanto al tessuto urbano che a quello demografico.

In tali eventi, le classi popolari furono certamente quelle sulle quali maggiormente si abbatterono gli effetti della crisi. Le giovani generazioni falcidiate dal micidiale prelievo della leva, gli adulti oppressi dagli spietati rapporti di subalternità lavorativa tanto nel sottoproletariato urbano quanto nel ceto contadino: un corpo sociale, insomma, aduso a vivere le proprie giornate storiche tra rassegnazione disperata e palingenetiche speranze di riscatto e liberazione.

Che senso acquistano, in tale contesto, le epifanie di un dio che si manifesta attraverso le lacrime? Occorre rammentare che tale fenomeno, inaugurato dal Bambinello in cera di Padre Fabris, si è successivamente ripetuto più volte in Sicilia, come del resto – in determinati contesti storici – in altre parti d’Italia.

Per rimanere al secolo scorso, basti ricordare la lacrimazione di un quadretto della Madonna a Siracusa nel 1953, a partire dal quale si sviluppò un imponente fenomeno devozionale destinato a travalicare i confini nazionali, e la lacrimazione del Volto di Gesù a Giampilieri Marina nel 1989 (poi divenuta lacrimazione di sangue nel tempo pasquale dell’anno successivo), anch’essa – benché in misura certamente inferiore – causa di rinnovato incremento di una fede assai spesso messa alla prova dal peso del negativo quotidiano e da una modernità ormai rassegnata a non levare più gli occhi verso il cielo. Molti altri episodi dello stesso genere potrebbero esser menzionati a tale riguardo. Per rimanere in ambito messinese, si rammenta lo scalpore destato alcuni anni or sono dalla presunta lacrimazione di una statua di Padre Pio collocata di fronte al Santuario di Pompei.

Tali fenomeni, che in gran parte hanno luogo presso dimore di privati cittadini per lo più appartenenti a fasce sociali medio-basse, sortiscono guarigioni, conversioni, meccanismi di devozione collettiva che “fanno star meglio” le persone che di essi sono partecipi. Di fatto, le lacrime e le lacrimazioni si rivelano in questi casi forme specifiche, particolari e speciali di comunicazione.

E’ interessante notare come in alcuni di tali eventi “epifanici” rivesta sempre una grande importanza il corpo. Nel momento epifanico, che non fa parte del tempo ordinario ma pertiene alla dimensione mitica e metastorica, Dio parla attraverso il proprio corpo di cera, di terracotta, di legno o di bronzo, e invita ad appropriarsi dei segni della propria presenza attraverso la raccolta delle lacrime o del sangue in batuffoli di cotone che perpetueranno tale presenza nel tempo storico, nell’esistenza quotidiana.

Occorre forse riflettere sul peculiare statuto delle immagini sacre quali immagini responsabili, immagini in grado di fornire responsa in quanto simboleggianti un soggetto o un’entità; su tale tematica lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman (Un sang d’images, in L’humeur et son changement, “Nouvelle Revue de Psychanalise”, 32, Gallimard, 1985) ha elaborato la categoria da lui definita della “transustanziazione”. Secondo tale prospettiva ermeneutica, le immagini sacre, nonché essere mere riproduzioni di un referente (l’immagine di un santo riproduce quel santo) tendono, in contesti di fruizione ancora permeati da una cultura di tipo tradizionale, a confondersi con esso, partecipando in pari grado dell’essenza che lo connota. L’immagine della divinità si trasformerebbe così in una sorta di reliquia di essa.

Il secreto lacrimale umano, insieme al sangue e a pochi altri tipi di liquidi (ricordo in questa sede la sostanza oleosa definita “manna” che ha caratterizzato l’essudato post mortem di San Nicola di Bari) è una sostanza che ha, nel corso della storia, assunto assai spesso la funzione di “epifania” del divino.

Al pari del sangue, il “sugo della vita” (Piero Camporesi), le lacrime si fanno elementi di un linguaggio che consente di gettare ponti tra al di qua e al di là. Attraverso la lacrimazione pubblicamente palesata si determina la legittimazione e il riconoscimento sociale del sacro. Le lacrime così fondano un nuovo spazio di comunicazione tra l’umano e il divino.

In aggiunta, le lacrime, proprio in quanto testimonianza – anche nella normale fenomenologia fisiologica dell’uomo – di forti emozioni quali la gioia e, più spesso, il dolore, nei fenomeni straordinari (fuori dell’ordinario) che le vedono protagoniste si fanno veicolo e insieme motore di una particolare “dialettica della sofferenza” attraverso la quale fasce sociali deprivate giungono a comporre un orizzonte simbolico alla propria situazione esistenziale.

Ancora più pregnante appare il rapporto che intercorre tra divinità, lacrime e cera. Sotto tale profilo, quest’ultima è un materiale esemplare. Appare infatti sin dagli albori della civiltà occidentale come un materiale altamente caricato di valori simbolici. La circostanza che la cera venga prodotta dalle api, animali che dispiegano il proprio ciclo biologico passando dallo stato larvale a un’esistenza piena, ha fatto sì che essa (come, per altro verso, il miele) assurgesse a simbolo del “mutamento di stato”, della resurrezione e quindi dell’immortalità. Sin dall’inizio della sua scoperta, la cera è stata utilizzata per fini liturgici. In particolare, per rimanere in ambito cattolico, la sua plasmabilità e la sua capacità di alimentare la fiamma a lenta consumazione l’hanno resa segno, per un verso, del cristiano, “cera molle” tra le dita del suo Creatore, per altro verso della virtù – alludente alla Parola – di alimentare la luce divina.

Sorprendente resa mimetica, malleabilità e facilità di lavorazione, colorabilità e capacità di accogliere prodotti organici come peli, capelli, denti, unghie; la cera ci sorprende e quasi ci impaurisce per la sua attitudine a riprodurre alla perfezione la corporeità umana, tanto il derma che la sarx. Come afferma Ernst H. Gombrich (Art and Illusion. A Study in the Psychology of Pictorial Representation, New York, 1960) la cera “spesso ci mette a disagio col suo esorbitare dai limiti della rappresentazione simbolica”.

La cera del Bambinello di Padre Fabris si presenta pertanto come materia particolarmente idonea a farsi luogo di una epifania lacrimatoria.

Cera, sangue, “manna”, lacrime. Tali “materiali”, organici quanti altri mai, è pur possibile che si costituiscano come media privilegiati attraverso i quali un Dio che voglia, ogni tanto, visitare la storia degli uomini decide di farsi presente ad essi.

Analoghe considerazioni possono essere svolte riguardo alle statue di Madonne o Santi che si rifiutano di essere mere icone e rivendicano la transustanziazione di cui parla Didi-Hubermann. Le statue che aprono e chiudono gli occhi, che lacrimano, che sanguinano, che si muovono o parlano, tradiscono la loro identità di partenza consistente nell’essere mere riproduzioni di un referente e si propongono di identificarsi in esso, trasformandosi in tal modo in una sorta di reliquia vivente attraverso la quale l’ente numinoso si rapporta direttamente e fisicamente con i suoi fedeli.

Tale invero pare essere l’uso che si è storicamente fatto delle immagini sacre, veri e propri dispositivi volti a presentificare e rendere partecipe della storia l’ente numinoso nei più svariati contesti della vita quotidiana, sì che l’esistenza degli uomini possa dispiegarsi per entro un sistema garante dell’integrità della persona, al contempo utile a rassicurare l’utente di tale dispositivo sulla congruità e coerenza dei propri orizzonti, tanto al livello del tempo strutturato che a quello del tempo vissuto.

La cultura popolare siciliana ha sempre riconosciuto come forte elemento identitario la corrispondenza univoca e pressoché esclusiva tra la persona e la sua rappresentazione in effigie, non meno che – nel caso della realizzazione di opere attraverso l’impiego di calchi – tra una matrice e il prodotto che da questa si trae. Di un figlio assai simile al padre si dice ad esempio che egli è “’nu stampu e ’na fijùra”. Tale ideologia investe – com’è agevole verificare – ambiti di precipuo, se non esclusivo, ordine simbolico.

E’ facile comprendere ciò che tale percezione sociale delle immagini comporta in ordine al “senso” delle dinamiche di utilizzazione delle stesse nei più disparati contesti pubblici e privati.

Queste icone sacre ci interpellano pertanto nella veste inusitata di icone ribelli, non disposte a svolgere un mero ruolo rappresentativo ma desiderose di travalicare la propria natura per raggiungere uno statuto sostanziale che, di fatto, ne contraddice l’originaria vocazione.

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