Due notizie di analogo tenore hanno arricchito le cronache recenti. La prima riguarda il Parco “Aldo Moro” di Messina, la seconda il complessoLe Rocce” di Taormina. Tanto sulla prima quanto sulla seconda di tali realtà si è potuto misurare il gap ancora esistente tra le legittime aspirazioni dei cittadini (siano essi rappresentati da un singolo come il mecenate Antonio Presti, o da un manipolo di volontari come quelli costituitisi in comitato a difesa del Parco messinese) a rendere fruibili dalla collettività spazi altrimenti interdetti e per decenni lasciati in completo abbandono, e gli interventi istituzionali che per miopia o malafede vanificano tali iniziative di riappropriazione democratica dei luoghi.

Il Parco “Aldo Moro” (uno spazio a verde di ben 14.000 metri quadrati) è un’area di grande impatto paesaggistico nel cuore della città ma sconosciuto ai più.  Di proprietà comunale, esso è nel 1949 transitato all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia in forza di una cessione a titolo gratuito (si badi bene, non di una vendita ma di una semplice cessione) contenente una clausola ampiamente disattesa dall’Istituto stesso che non ha, in oltre sessant’anni, tenuto fede alle condizioni che prevedevano la restituzione del bene al Comune ove il Parco fosse caduto in disuso e l’Istituto beneficiario della cessione non avesse in esso attivato le strutture di monitoraggio e di ricerca per le cui finalità la cessione stessa aveva avuto luogo. Circostanza appunto verificatasi, come è agevole rilevare dallo stato di estremo abbandono e degrado in cui la struttura ha versato per decenni e versa attualmente.

Un gruppo di cittadini costituitisi in Comitato per la valorizzazione di tale bene ha occupato pacificamente l’area, procedendo attraverso l’opera di numerosi volontari ad una prima sommaria pulitura dei viali dalle sterpaglie che ormai li avvolgevano. Hanno altresì rilevato la presenza di resti metallici indebitamente innestati nelle strutture murarie di uno storico fortilizio secentesco insistente all’interno dell’area, oltre che di lastre di eternit colpevolmente abbandonate in situ, e avviato una campagna di stampa volta a promuovere un articolato processo di bonifica che sortisca la definitiva fruibilità del bene storico-architettonico e dell’intero Parco. L’interesse storico della persistenza architettonica è oltremodo rilevante, atteso che proprio nell’area dell’attuale Parco si svolsero alcune vicende belliche della rivolta antispagnola del 1674-78. Tutto ciò, a vantaggio della cittadinanza, auspicando la futura piena disponibilità degli edifici esistenti al suo interno (costruiti in passato dall’Istituto di Geofisica ma lasciati ben presto del tutto vuoti e nella più totale incuria) per finalità di tipo genericamente culturale o specificamente museologico, e in ogni caso per attività compatibili con la natura e il decoro del bene.

Bene, a fronte di tale generoso impegno di natura sociale, attivato in una città come Messina che si caratterizza per l’assenza di spazi verdi significativi e per la trascuratezza nella manutenzione dei pochi esistenti (Villino Sabin, Villa Mazzini, Villa Dante), il Comune ha inspiegabilmente accettato di sottoscrivere con l’Istituto di Vulcanologia (inadempiente rispetto alle clausole dell’originaria cessione e dunque a rigore non più titolare del bene) una cessione del bene dall’Istituto al Comune stesso per la durata di ventinove anni (sic). Ho utilizzato l’avverbio inspiegabilmente in quanto a me pare che la ratio dell’iniziativa assunta dal Comitato fosse in piena sintonia ideologica con i programmi di politica culturale dell’Amministrazione, trattandosi di far ritornare “bene comune” un bene a lungo sottratto alla comunità. Bah!

In aggiunta a ciò si è recentemente registrato, all’interno del Parco, anche un episodio vandalico e hanno cominciato a girare voci sulla destinazione dello stesso che non fanno bene sperare sulla destinazione “comunitaria” di tale importante polmone cittadino.

Andiamo al versante taorminese. Qui ha fatto la sua clamorosa comparsa il mecenate Antonio Presti, che si è offerto di prendersi cura, a proprie spese, di quell’altro bene pubblico ma per decenni rimasto in colpevole stato di abbandono costituito dal Complesso “Le Rocce di Mazzarò”, venticinque immobili oggi diruti disseminati in uno straordinario palcoscenico paesistico, negli anni Cinquanta glorioso Villaggio turistico agli onori delle cronache mondane e poi, dopo alterne vicende lungo gli anni Sessanta, dismessi e lasciati all’azione distruttrice che la natura sempre adotta sui manufatti di cui l’uomo più non si cura.

A seguito di comodato d’uso di novantanove anni siglato tra la Città Metropolitana di Messina e Antonio Presti, questo folle creatore di sogni si era impegnato a riconferire (ribadisco, a proprie spese) decoro, dignità e bellezza a questo complesso, risanandone i fabbricati che lo compongono, mettendone in sicurezza i percorsi più impervi e soprattutto iniziando a farlo rivivere con iniziative di grande valenza estetica e umanistica, Parco Ambientale o Museo all’aperto che fosse, in ogni caso vocato a costituirsi – al pari di tutti i luoghi toccati dall’utopia energetica di Presti – quale spazio di bellezza non preclusa. Ultima destinazione del bene sarebbe stata, nelle intenzioni dello stesso mecenate, l’affidamento ad una comunità di disabili perché in questo ex tempio della Dolce Vita si creasse una casa di gioia, di accoglienza e di tolleranza.

Una recentissima sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa, stimolata da albergatori forse privi di sogni non legati al profitto, ha disposto l’annullamento del protocollo e la restituzione del complesso (sul quale Presti aveva nel frattempo, in pochi mesi, già investito una notevole somma) all’Ente proprietario. Da qui, a pioggia, una miriade di proposte di successiva destinazione del bene (da Museo del Mare a Villaggio per nudisti) partorite da Amministratori del comprensorio. Proposte – a ben vedere – poco meditate e destinate a rimanere flatus vocis, nella Taormina in cui un museo di eccezionale valore come quello dedicato ad Arte e Tradizioni Popolari (conosciuto come Museo Panarello) è stato anni or sono sloggiato dalla sede originaria di Palazzo Corvaja e nessuno ha fin qui provveduto a trasferirlo in quella che rimane, per antica delibera di destinazione d’uso del Consiglio Comunale, la sua sede istituzionale, ossia il restaurato Palazzo Ciampoli, che rischia in tal modo di rimanere vuoto contenitore al pari delle numerose cattedrali nel deserto che vanta la nostra Isola.

Fin qui le cronache, paradossali e pirandelliane, di queste due mancate iniziative di valorizzazione. Senza entrare nel merito dei risvolti giudiziari delle due vicende a me tutto questo suscita una domanda angosciosa. Come è possibile che ogni qualvolta qualcuno tenti di fare qualcosa a beneficio di tutti, qualcun altro si svegli e decida di fermarlo?

Un vecchio libro ormai dimenticato di Rosario La Duca ci può dare una risposta plausibile. In Sicilia, scrive La Duca, esiste il peccato di “fare”. Appena qualcuno di buona volontà si accinge, ingenuamente, a progettare qualcosa che possa fare bene alla comunità, poco ma sicuro che viene fermato in tempo. Perché? Perché ha osato “fare”. Anche a Messina, pertanto, è normale che il fare desti sospetto. Molto meglio il non fare. O, tutt’al più, il malaffare.

 

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michele cannaò
26 Gennaio 2018 12:14

Caro Sergio, accadde così anche ai tempi, non lontani, del Museo del Fango. E tu ne sai qualcosa.