Il neo ministro della Cultura Alessandro Giuli ha dichiarato tra l’altro, nelle recenti, incomprensibili, dichiarazioni programmatiche relative alla sua attività da ministro in occasione del suo primo intervento alla Camera, che “fare cultura è pensare sempre daccapo e riaffermare continuamente la dignità alla centralità dell’uomo e ricordare la lezione di umanesimo integrale che la civiltà del rinascimento ha reso universale: non l’algoritmo ma l’umano, la sua coscienza, intelligenza e cultura immagina, plasma e forma il mondo”.

Un ministro filosofo, non c’è che dire, il quale cita Heidegger, Maritain e Adriano Olivetti e pare ergersi a difensore dell’umano contro l’algoritmo ma finge di non sapere che la sua dante causa, la Signoradelfascioaccanto, civetta da tempo con un tycoon che con gli algoritmi ci ha fatto i miliardi e che all’umano preferisce il guadagno con le criptovalute.

Parlo di quel tale Elon Musk, che insieme al neo presidente USA si accinge a togliere autonomia e indipendenza alla Federal Reserve, la Banca Centrale degli Stati Uniti. Lo scopo di tale manovra è quello di sostituire al denaro “reale” e far circolare nel mondo intero le criptovalute, riducendo progressivamente la sovranità degli Stati e alterando fatalmente la distribuzione del reddito. Al denaro guadagnato con il lavoro si sostituirebbe in tal modo quello proveniente dalle diavolerie di pochi spregiudicati burattinai che sullo sviluppo planetario di tali asset privi di un superiore controllo arricchirebbero, non più virtualmente ma assai concretamente, le loro sterminate sostanze, a danno di quanti credono che l’economia si fondi sulla produzione di ricchezza derivante dall’impegno concreto, dalle lacrime e sangue di chi lavora per produrre sostentamento e benessere per sé e per la società in cui si vive.

Questo diabolico scivolamento dalla realtà alla virtualità di algoritmi governati da pochi è forse il panorama drammatico che ci attende nei prossimi decenni.

Quasi cinquant’anni fa un filosofo italiano illuminato come Giorgio Agamben metteva in luce in un suo scritto (Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell’esperienza) come la perdita di tale fondamentale attitudine umana, il fare esperienza delle cose del mondo, stesse conducendo l’umanità verso un radicale impoverimento dei propri parametri esistenziali:

Ogni discorso sull’esperienza deve oggi partire dalla constatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato di fare. Poiché, così come è stato privato della sua biografia, l’uomo contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza: anzi, l’incapacità di fare e trasmettere esperienze è, forse, uno dei pochi dati certi di cui egli disponga su se stesso”.

Se già allora Agamben registrava tale dato, a maggior ragione oggi esso dovrebbe farci avvertiti che nell’ultimo mezzo secolo il processo di perdita dell’esperienza si è fatto sempre più vertiginoso, fino a privare gran parte delle persone della consapevolezza stessa di quanto tale perdita costituisca un vulnus che sortisce già adesso una mutazione radicale destinata a incidere profondamente sulla qualità di vita di noi tutti.

Qualche esempio, tra i più elementari? Vi siete chiesti perché la gente non si indigna più, perché (almeno da noi purtroppo) non scende più in strada a protestare? Perché tira a campare illudendosi che le narrazioni propinate dal potere corrispondano alla realtà? Una realtà che, pur subendola tristemente ogni giorno, ci si è rassegnati a non guardare in faccia. La verità è che i social ci hanno resi ottusamente assuefatti al dato che le persone comunicano tra loro non più avvicinando i propri corpi e guardandosi negli occhi, ma affidando al web i propri sentimenti, desideri, sogni. Le proprie paure, le proprie speranze. La crisi della politica, il venir sempre meno dell’elettorato attivo in gran parte del pianeta, le sempre più frequenti dinamiche plebiscitarie e le scelte sempre più consuete di affidarsi a figure “forti” cui delegare scelte che determinano i destini collettivi non sono altro che l’esito di processi (li si chiami populisti, sovranisti o in altro modo) che di fatto intendono sottrarre alle persone l’esperienza di lavorare tutti insieme alla costruzione di un mondo migliore. Il risultato è un triste panorama da grande fratello, o da Fahrenheit 451, in cui i cittadini rimangono a casa controllati a vista dai televisori, immemori di quanto ci insegnava il profeta Don Lorenzo Milani a proposito della politica (“Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”).

Chiarisco che personalmente non mi sento appartenere né alla tribù degli apocalittici né a quella degli integrati. Mi premeva soltanto riflettere sui rischi che una radicale disumanizzazione dei comportamenti umani e la tragica perdita dell’esperienza cui ci stiamo tutti assuefacendo possano comportare per il mantenimento, anzi per la realizzazione, di un mondo più a misura d’uomo e non di macchina, più vivibile per tutti quanti lo abitano.

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