Il libro: “Paura”, di Bob Woodward

 

 

Il miglior libro sulla politica italiana, sulla direzione che sta prendendo l’Europa, sul nuovo ordine mondiale, lo ha scritto un americano. Non uno qualsiasi: Bob Woodward, un titano del giornalismo mondiale, pluripremiato col Pulitzer, associate editor del Washington post e uomo a cui Robert Redfrord ha dato un volto in “Tutti gli uomini del presidente”, film che raccontava la scoperta, le indagini e la pubblicazione dello scandalo Watergate rivelate da Woodward e dal collega Carl Bernstein

Il libro si chiama “Paura”. E parla (in maniera avvincente, documentata, asciutta e a tratti terrorizzante) di Donald Trump, dei retroscena della sua presidenza e dei processi decisionali sui quali si basano le scelte di politica interna ed estera dell’uomo più potente del mondo. Che non ci fa esattamente un figurone, diciamo, con metà del suo staff, spesso piuttosto circense, impegnato a nascondergli documenti e a dissuaderlo da idee bislacche, terrorizzato da quella potenzialmente letale miscela di umore sempre cangiante e nessuna conoscenza dei basilari meccanismi di economia, politica, amministrazione e diplomazia che occupa pro tempore la Casa Bianca.

Sulla vittoria di Trump, sulle ingerenze russe, sul network della alt-right che ne ha sospinto la volata verso la Casa bianca, si è scritto molto (anche all’interno del libro), e se ne scriverà ancora di più, probabilmente in aule giudiziarie. Quello che rimane, dopo le oltre 450 pagine del libro, è la spiacevole constatazione che certi meccanismi (cialtroneria, inettitudine, rincorsa alla pancia della gente, desertificazione culturale e sociale), possa tranquillamente essere traslata dal ventre redneck dell’America, quello al quale ha sempre strizzato l’occhiolino Trump, ai redditi di cittadinanza, ai “ciaone”, alla flat tax, ai “capitano”, alla Brexit, alle discussioni su euro, migranti, sicurezza e libertà: l’inadeguatezza a fare politica che diventa valore, e la competenza che invece diventa disvalore. La piena dimostrazione della validità del principio di Dunning-Kruger. E mai titolo fu più azzeccato per un libro.

(di Alessio Caspanello)

 

Il videogame: “The legend of Zelda: breath of the wild”

 

 

Era il lontano 1986 quando quel geniaccio di Shigeru Myamoto (il creatore di Super Mario, per intenderci) diede vita a una delle più belle e longeve saghe nella storia dei videogame. Il gioco in questione si chiamava semplicemente “La leggenda di Zelda” e narrava con la tenerezza grafica degli allora 8 bit del primissimo Nintendo le avventure di un essere con le orecchie a punta (Link) chiamato a salvare dalle grinfie di un malvagio la principessa Zelda (il cui nome è ispirato a quello dell’omonima scrittrice, moglie di Francis Scott Fitzgerald).

Da allora (erano i primordi dei videogiochi) sono trascorsi più di 30 anni e di acqua sotto ai ponti ne è passata parecchia. Eppure il nostro Link è sempre lì, silenzioso come sempre, intento ad affrontare schiere di mostricciattoli fantasy nelle lande sterminate dell’incantevole mondo di Hyrule. Quello che è cambiato, oltre alle allora impensabili migliorie grafiche, è soprattutto l’approccio “esistenziale” al concetto di intrattenimento videoludico tout court.

“Breath of the wild”, da questo punto di vista, rappresenta quanto di più simile esista a un’opera letteraria interattiva: dal risveglio del protagonista dopo 100 anni di sonno fino all’epica battaglia finale con la “calamità” Ganon, il nuovo capitolo delle avventure di Link è un puro concentrato di emozioni, stupore, game design  a livelli inauditi, epicità e poesia visiva (oltre a una colonna sonora da premio Oscar). Ma tralasciando considerazioni squisitamente tecniche (per quelle vi rimandiamo a chi ne sa più di noi), il motivo principale per il quale vale la pena “perdersi” nella sconfinata realtà parallela creata da Nintendo (la superficie del gioco è grossomodo pari a quella della città di Kyoto) è la costante sensazione di smarrimento e meraviglia che si prova interagendo passo dopo passo con un mondo virtuale che più “vivo” non si può, caratterizzato da una fauna lussureggiante, da una flora paradisiaca e da scenari fiabeschi. La parola d’ordine è sopravvivere: per farlo saremo chiamati a “comprendere” la fisica e le dinamiche di ciò che ci sta attorno, sfruttando a nostro vantaggio gli elementi naturali, mentre il ciclo delle ore e delle stagioni muta e con esso il paesaggio, i personaggi e noi stessi. Come in un meraviglioso romanzo di formazione 2.0. A chi regalarlo? A tutti gli adolescenti convinti che i videogame siano (solo) un concentrato di adrenalina e splatter. O a tutti coloro che hanno deciso di invecchiare senza diventare per forza degli adulti (cit.)

(di Marino Rinaldi)

 

Il dvd: “The eternal sunshine of the spotless mind” di Michel Gondry

 

 

Non un vero e proprio cult, ma conosciuto sicuramente per il pessimo titolo con cui è stato portato in Italia, Se mi lasci ti cancello, uscito nel 2004, rappresenta il film perfetto per tutti: gli innamorati, i cuori infranti, i ricercatori d’amore o per chi, semplicemente, ha bisogno di vivere “l’amore” da un punto di vista leggero, ma non troppo. La pellicola, non catalogabile come drammatica, ma nemmeno appartenente alle commedie, è una storia surreale semplice: quella di Clementine (interpretata da Kate Winslet) e di Joel (interpretato da Jim Carrie). Per loro cupido scocca la freccia su un treno, in un giorno qualunque d’inverno. Una storia destinata a essere travagliata, la loro, ma che li porta, una volta che i due si separeranno definitivamente, alla radicale decisione di ricorrere a un medico che può cancellare la memoria delle persone. Un gesto che comunque non avviene in maniera meccanica ma che fa scontrare i protagonisti con il peso della loro memoria, delle loro emozioni e dei loro sentimenti.

L’amore non dura in eterno, si sa, ma ogni volta che una storia finisce la mente umana ne ripercorrere tutte le fasi dalla fine all’inizio, invertendo l’ordine cronologico e affidandosi a quei flashback dolorosissimi che possono dilaniare o diventare occasione per superare tutto il dolore. Così anche il regista riesce a fare la stessa cosa sullo schermo, rendendo la storia di Clementine e Joel, quella di ognuno di noi e raccontando il processo mentale attraverso cui ciascuno, almeno una volta nella vita, ha smaltito la “sbornia” del sentimento finito ripercorrendo quelle strade e quei momenti nella propria interiorità. Interiorità che è la vera protagonista di un film, in ultima analisi, catartico. I diversi livelli di realtà si intrecciano per rispondere alla sfida esistenziale più grande, cioè quella di essere consapevoli del fatto che le proprie emozioni, i propri ricordi e le proprie esperienze sono le basi per la costruzione quotidiana della propria identità.

Così anche gli amori finiti e quelli perduti ne rappresentano una parte fondamentale e irremovibile anche in un futuro ipertecnologico in cui un medico, sotto pagamento, potrà rimuovere parte dei nostri ricordi. Ed ecco, allora, che The eternal sunshine of the spotless mind regala a tutti la possibilità di giungere alla consapevolezza che liberarsi dal peso delle proprie emozioni potrebbe essere un sollievo sì, ma rappresenterebbe anche l’annullamento di tutta la propria personalità. La brillante sceneggiatura di Charlie Kaufman, premiata agli Oscar e ai BFTA del 2005, ritrae quindi la sfida della pagina bianca: gli errori del passato possono essere fatti nuovamente, ma è il presente l’unico vero banco di prova in cui ognuno deve rivolgersi – con tutto il bagaglio di esperienze che lo contraddistinguono.

(di Marina Pagliaro) 

 

 

Il disco: 7 dei Beach House

 

Regalare un disco per Natale è un’operazione delicata ma non sconsigliabile, se siete bravi a indagare su due cose: uno, fondamentale, i gusti della persona che deve riceverlo. Due, la sua collezione, perché non è come donare un paio di guanti che tanto va tutto bene, al massimo cambi colore. Partendo da questi presupposti, la scelta si deve comunque indirizzare verso un album particolare, con i giusti crismi e che faccia credere al vostro interlocutore che sia stata una decisione presa da tempo, e non certo per un consiglio esterno. Fossi in voi, andrei dritto al primo negozio di dischi che trovo per strada e acquisterei 7, il nuovo disco dei Beach House. Ha tutte le carte in regola per diventare una vera pietra miliare, è intimo e accessibile a chiunque abbia un minimo di curiosità verso sonorità meno comuni al mainstream e, specialmente, la voglia di uscire dalle ripetitive classifiche FIMI (che, sulla fiducia, non hanno portato forti ventate di novità neanche quest’anno).

(di Gregorio Parisi) 

Gadget: un meraviglioso mondo dei balocchi chiamato “Troppo togo”

 

 

Grembiuli da barba, cuscini musicali, calzini sushi, il tagliere di Walter White, set da golf da bagno, proiettori di stelle fai da te, pantofole riscaldate a forma di unicorno, etilometri per smartphone, rotoli di carta igienica con Qr code e spade laser dei Jedi con effetti speciali inclusi. Senza dimenticare gli imperdibili lecca lecca alla birra, le infradito in finta erba e una “fondamentale quanto inutile” tenda da doccia con gli elementi della tavola periodica. Oltre a telecamere grandi quanto un mignolo, custodie per iphone che fungono da apribottiglia, mutande mangiabili… neve in lattina e lucciole in barattolo.

Sembrano oggetti usciti dritti dritti dalla borsa di Mary Poppins, eppure esistono davvero, nel pazzoide catalogo online del sito Troppotogo.it, uno store virtuale di grande successo nato proprio in riva allo Stretto, quando due giovani messinesi, Fabio Bombaci e Sergio Anna, residente a Londra, decisero di aprire uno stravagante bazar di gadgets in via Garibaldi, all’angolo con piazza Municipio. Adesso, dieci anni dopo l’apertura delle saracinesche dello store fisico, poi chiuso, quel negozio sui generis pieno di oggetti stravaganti e mirabilie continua a smerciare i suoi prodotti su internet, in un sito consultato ogni anno da milioni di utenti stufi di regalare i soliti ombrelli e le immancabili sciarpe e intenzionati a stupire familiari, amici e colleghi con originalità, spregiudicatezza e un pizzico di follia.

 

 

La Messina che non c’è più, immortalata in 600 scatti

 

 

Dal “vecchio” Duomo attorniato da splendidi palazzi all’antica strada dei monasteri, dall’aristocratica strada Garibaldi alla maestosità della nuova Palazzata, dal lussureggiante “Giardino a Mare” al relitto del piroscafo “Amerique” arenato sulla spiaggia, è una Messina bellissima, sorprendente e (a tanti) sconosciuta quella immortalata dal libro “Messina – Cento e più anni fa”, a cura di Giovanni Molonia. Edito nel 2008 da “Edizioni Di Nicolò”, il volume raccoglie in 318 pagine centinaia e centinaia di immagini inedite della città (più di 600), con ricostruzioni storiche, cartine toponomastiche del periodo, approfondimenti e info dettagliate. Oltre agli scatti della città che fu, il tomo ospita inoltre numerose foto che ritraggono gli abitanti dell’epoca, dalle autorità alla gente del popolo, mostrando abitudini, usi e costumi degli anni a cavallo fra il IXX e il XX secolo. Uno splendido viaggio fotografico nella città pre-terremoto. Fra monumenti perduti, stravolgimenti urbanistici e scorci dimenticati. Per non scordare come eravamo.

 

Una seconda chance agli oggetti usati

 

Vere e proprie miniere di oggettistica vintage ormai praticamente introvabile, i negozi che vendono roba di seconda mano ormai abbondano in tutta la città. All’interno, con un po’ di pazienza per orientarsi tra paccottiglia e cianfrusaglie, è possibile trovare chicche di pregio, come le gettonatissime macchine da scrivere e le ormai introvabili macchine fotografiche reflex a pellicola, ma anche orologi, bicchieri, locandine e bijoux avvolti da quella irresistibile patina di “vecchio” che ormai è di gran moda.

Second Life di via Mario Aspa, nei pressi del Teatro Vittorio Emanuele, è una boutique specializzata in abbigliamento e accessori vintage e basata sul riciclo e sul riuso, mentre Il mercante di Messina, precedentemente a San Licandro, ha trovato collocazione in centro, sul corso Cavour, spingendosi  nel campo dell’antiquariato senza grossi timori reverenziali.

Non brilla per l’originalità del nome, ma al Mercatino dell’usato di Messina, di via Nina da Messina (una traversa del Viale della Libertà) si trova letteralmente di tutto, basta avere molta pazienza, mentre si è specializzato in orologi il Mercatinorologi di via Roosevelt, senza dimenticare il mercato rionale di viale Giostra, nato in sordina e oggi frequentatissimo. E per chi volesse invece fare un tuffo negli anni ’50 (ma anche ’60 e ’70), nella centralissima via Ettore Lombardo Pellegrino ha aperto da tempo il piccolo “Retroverso”:  un piccolo paradiso di vinili, abiti, mobili, accessori ed elementi d’arredo che gli anni trascorsi hanno reso ancora più belli.

 

 

 

 

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