Paragonato all’Ulisse di Omero e a quello di Joyce, alla Commedia dantesca e alle epopee americane del mare di Melville, Hemingway e Poe, il romanzo-poema Horcynus Orca è davvero un unicum nella letteratura italiana dello scorso secolo.

Stefano D’Arrigo infatti costruisce e cesella non solo i suoi personaggi, e il mito che attraversano, ma addirittura il linguaggio con cui sono raccontati. Lo Stretto diventerà lo scill’e cariddi, i delfini le fere, i pescatori i pellisquadre, le donne dello Stretto le femminote. ‘Ndrja Cambria, Caitanello, Ciccina Circé, l’Acitana e tutti gli altri diventano eroi epici, la narrazione un’inestricabile matassa di prosa e poesia, dialetto e italiano. Una volta che ci si addentra nella lettura, non si può far altro che lasciarsi guidare, rinunciando, comandati, a comandare.

L’autore, Stefano D’Arrigo, nasce ad Alì Terme, sul lembo estremo dello Stretto, nel 1919. A dieci anni si trasferirà a Milazzo, per le scuole medie e superiori e poi a Messina per gli studi universitari dove discuterà, poco dopo lo sbarco alleato del ‘43, una tesi di laurea su Friedrich Hölderlin, poeta romantico ed epico ma, in quanto tedesco, diventato scomodo dopo la liberazione. E sicuramente saranno quei giorni a forgiare, nell’immaginario di D’Arrigo, i primi semi delle idee e dei personaggi del suo capolavoro letterario.

Terminata la sua formazione, dopo una breve parentesi napoletana, D’Arrigo si trasferisce a Roma, in zona Monte Sacro, poco distante dalla quale gli verrà poi intitolato un viale (esistono vie a lui dedicate anche a Palermo, Crotone e nella nativa Alì Terme). Lì si dedica a diverse attività, dal giornalismo alla critica d’arte e alla poesia. Saranno questi gli anni in cui stringerà amicizia con illustri suoi corregionali, Vittorini, Guttuso, Mazzullo, ma anche Ungaretti, Zavattini e Flaiano. Nel ’48 sposa la musa, collaboratrice e compagna di una vita, Jutta Bruto, conosciuta a Messina durante gli anni dell’università e dopo pochi anni, inizia a lavorare al suo grande progetto: Horcynus Orca. Cominciato nel ’56, nel 1961 D’Arrigo consegna le bozze del romanzo a Mondadori, con il titolo provvisorio “I fatti della fera”. L’editore, entusiasta, gli offrì l’opera dei suoi migliori collaboratori per la correzione del manoscritto, ma D’Arrigo pretese di lavorare da solo, impegnandosi a consegnare il testo definitivo in quindici giorni.

Ci mise invece altri tredici anni. Solo nel 1974 verrà pubblicato Horcynus Orca, che nel frattempo era raddoppiato nel numero di pagine e aveva invaso completamente la casa e la vita di D’Arrigo.

La trama, apparentemente semplice, racconta di un ritorno a casa, vero “nostos” omerico, di un marinaio “cariddoto” bloccato dalla guerra sul versante calabrese dello Stretto di Messina.

“’Ndrja Cambrìa vedeva così la notte, una notte doppiamente tenebrosa, per oscuramento di guerra e difetto di luna, rovesciarsi fra lui e quell’ultimo passo di poche miglia marine che gli restava da fare, per giungere al termine del suo viaggio: che era Cariddi, una quarantina di case a testaditenaglia dietro lo sperone, in quella nuvolaglia nera, visavì con Scilla sulla linea dei due mari.”

Un intreccio narrativo di poche ore, ma di oltre milleduecento pagine, ricco di inferenze, ricordi, flashback e ben cinquantasei storie parallele, con un finale, denso di poesia, che diventa manifesto dell’opera stessa:

Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.”

Terminata la fatica letteraria, D’Arrigo acuisce ulteriormente un’attitudine naturale alla vita schiva e riservata, riducendo al massimo le uscite pubbliche e gli incontri privati. Nel 1977, cura il Catalogo dell’opera antologica del conterraneo Giuseppe Mazzullo, di cui abbiamo raccontato la storia, ma dovranno passare ancora anni prima che esca il suo secondo e ultimo romanzo, Cima delle nobildonne, con cui lo scrittore sembra voler sovvertire completamente la sua immagine di scrittore costruita con Horcynus Orca. Sarà un romanzo breve, con una scrittura asciutta e un’ambientazione mitteleuropea. Insomma, una vera sfida a sé stesso e a coloro i quali desideravano inquadrare l’autore nei rigidi schemi della critica letteraria.

Nel ’92, morirà improvvisamente nel suo appartamento romano. L’allora presidente RAI, Walter Pedullà, ancora oggi il più grande biografo e conoscitore di D’Arrigo, che aveva definito Horcynus Orca un capolavoro della letteratura di tutti i tempi, dedicherà attraverso i canali della televisione italiana massima copertura mediatica.

Nella sua introduzione alla riedizione del ’98 in 4 volumi dell’intera opera di D’Arrigo, Pedullà scriverà: “L’opera di Stefano D’Arrigo, se per allegoria è il romanzo della fine del mondo, nella realtà racconta la fine del mondo in cui da millenni si sono avvicendati sullo Stretto di Messina i pescatori. Privi di scrittura, con parole povere quanto il loro cibo (il pescespada lo pescano ma non lo mangiano quasi mai, troppo lusso, troppo caro), essi comunicano anche ciò che il dialetto calabro-siculo non sa dire con precisione e che il narratore non può né intende dire naturalisticamente. Horcynus Orca è solo in apparenza una storia di umile e povera gente. […] Il Sud? Non solo: questo romanzo dà nuova luce e musica a tutti i punti cardinali.”

Se all’opera è stato dedicato un parco letterario, a capo Peloro, allo scrittore, la toponomastica messinese sembra non aver dedicato nulla, tanto che più volte, anche nel recente passato, si è gridato allo scandalo attraverso numerosi articoli di stampa. Va però svelato un piccolo “giallo”. Infatti, con delibera della giunta comunale 659 del 2012, l’amministrazione di Giuseppe Buzzanca, su richiesta dell’associazione culturale “Antonello da Messina”, disponeva l’intitolazione del cosiddetto “Belvedere delle palme” (il tratto costiero della via Circuito a Torre Faro) a Stefano D’Arrigo. Se l’iter di questa intitolazione abbia poi avuto compimento o meno (con il necessario benestare prefettizio, cui spetta l’ultima parola) o se piuttosto manchi soltanto che l’amministrazione di turno ponga una targa per informare la città della denominazione, non è dato, ad oggi, saperlo.vedi anche:

https://www.letteraemme.it/una-via-di-messina-per-stefano-darrigo-scrittore-visionario/

 

FiGi

 

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