Le fiere sono spazi mercantili e di relazione che in ogni tempo e presso tutte le latitudini le società umane hanno predisposto al fine di rendere possibili tra i propri componenti scambi di natura e caratteristiche le più variegate. Al giorno d’oggi i mercati si sono in genere trasformati in luoghi virtuali al cui interno assai spesso non esiste più alcun contatto diretto tra venditore e acquirente, il passaggio di mano delle merci avvenendo sulla scorta di inputs di tipo telematico. 

Cosa circolava nelle fiere e nei mercati di un tempo? Indubbiamente merci, ma anche modelli culturali, tecnologie, saperi, cultura immateriale e prodotti dell’immaginario.

La fiera era dunque il luogo, reale e simbolico a un tempo, in cui venivano posti in essere, come scrive Fernand Braudel, i meccanismi che si instaurano al livello superiore di quel grande universo degli scambi che ha storicamente mediato i mondi della produzione e del consumo. Sotto questo profilo ogni fiera non era altro che un mercato dilatato oltre i propri confini spazio-temporali e sociali. Essendo l’universo della fiera a un tempo universo delle specificità e delle diversità culturali, i beni circolanti al suo interno sono sempre stati storicamente “buoni da scambiare o da mostrare” oltre che “buoni da vendere o da comprare”; ciò significa che la fiera è stata un’occasione perché tra i gruppi sociali si effettuasse un travaso di idee e di cultura oltre che di merci. Quello stesso travaso di cui, da qualche anno a questa parte, i mercatini rionali e le bancarelle hanno in qualche modo reso possibile – sotto mutata veste – la sopravvivenza.

Questo è probabilmente ciò che intende dire Predrag Matvejeviç (in Mediterraneo, Garzanti, 1991) quando afferma che “su questi mercati la vendita è qualche volta meno importante del commercio e il commercio, a sua volta, meno della passione di commerciare: questa è la ragione per cui vi vengono pronunciate tante parole…”.

Un mondo, questo delle fiere, oggi certamente a rischio d’identità, data la mutazione antropologica che ha negli ultimi decenni annullato ogni diversità culturale, appiattendo e omologando tutto quanto rinviava alle specificità tradizionali delle singole comunità, condannandoci a un mondo ormai incredibilmente noioso in quanto le culture che lo compongono, un tempo plurime e variegate, sono oggi sempre più simili l’una all’altra.

A tale livello la fiera ha cessato di essere occasione per esperire incontri fruttuosi tra vicende esistenziali diverse. Il monopolio che le società opulente, in questa fase di capitalismo solo apparentemente avanzato, in realtà crepuscolare, hanno imposto alle comunità locali, ha messo in ombra e forse irrimediabilmente cancellato quella somma di prodotti, di abilità, di tecniche, di saperi, e anche di sogni, di ideologie e di utopie che un tempo trovavano nelle fiere i luoghi della loro circolazione e della loro persistenza. Cosa resta da fare? Probabilmente sforzarsi di mantenere il ricordo e il desiderio di un altro mondo, quello descritto ancora una volta da Metvejeviç: “Su banchi speciali, in tutto il Levante, si vendevano gli aromi: la mirra e il cinnamomo, l’incenso e il laudano e la cassia. Da questi luoghi si diffondeva un profumo forte e costante: molti pensavano di non poterselo più togliere di dosso. In qualche località lungo il mare si può effettivamente pensare che quei profumi siano eterni”.

Che senso ha dunque parlare di fiera in un mondo così malamente globalizzato da esser riuscito solo a omologare i difetti e le tare della cultura occidentale, a fagocitare e consumare voracemente i modelli culturali altrui e a vomitarli come orrida pappa indigesta? In questo mondo i patrimoni oggettuali che rinviano alla molteplicità delle culture che li hanno prodotti non sono più segni d’identità esibiti con fierezza, ma miseri “dada” la cui apparente alterità giova tutt’al più a strappare esotici languori a un’umanità piccolo-borghese desiderosa solo di rispecchiarsi in se stessa.

Questa lunga premessa giova solo a stimolare una riflessione sui destini della Fiera Campionaria Internazionale di Messina. Da come sta messa in questo momento, essa sarebbe da lasciare alle anime belle messinesi e agli amici del ponte sullo Stretto. Chiediamoci però come ha fatto a trasformarsi nel non-luogo che oggi si offre ai cittadini.

Credo che tutto, o quasi tutto vada ricondotto alla gestione (o meglio, non gestione) della cosiddetta Autorità Portuale. Verrebbe da dire: autorità, de che? In altri luoghi questo Ente è un’istituzione seria, che opera per portare sviluppo economico e al contempo miglioramento della qualità di vita dei cittadini e delle diverse fasce di utenza. Faccio un esempio. Sono stato recentemente in Liguria, e per prendere il vaporetto che da La Spezia porta alle Cinque Terre ho usufruito dei servizi, degli spazi, delle strutture offerte dalla locale Autorità Portuale. Ne cito solo due, un enorme parcheggio a basso pagamento messo a disposizione di quanti intendano imbarcarsi, e uno spettacolare ponte di attraversamento terrestre che da tale parcheggio conduce direttamente ai moli. Tutto questo realizzato dall’Ente con i proventi incassati dai privati. 

L’Autorità Portuale di Messina, che risulta titolare (parlo per l’area strettamente urbana) di una fascia litoranea estesa dalla Zona Falcata fino alla Villetta Bosurgi, non ha fin qui fatto niente per la Cittadella, la gloriosa Cittadella che fa palpitare il cuore di tanti NeoBorbonici messinesi, e continua a far poco per riconferire agli spazi un tempo fieristici il decoro, la dignità e la bellezza da essi posseduti in passato (la indimenticabile Passeggiata a Mare degli anni ’50-’60, e andando indietro nel tempo lo Chalet, i Gazebo musicali, la vivacità da Belle Epoque di una Messina scomparsa). Gli unici sforzi sono stati rivolti a far sgomberare uno spazio teatrale (il Teatro Pinelli) che rimane una delle realtà culturali più pregnanti di Messina nell’ultimo decennio, e avviare una discutibile attività edificatoria e palazzinara all’interno dell’ex Fiera, attività il cui fine non si riesce a comprendere, posto che tutti i padiglioni fieristici rimangono da anni desolatamente vacanti, tranne qualcuno servire ogni tanto a ospitare mercatini di vario genere, alcuni dei quali di dubbio gusto.

In compenso, come già in passato mi è capitato di osservare (http://www.letteraemme.it/2018/10/28/il-genocidio-culturale-del-porto-di-messina/), l’attuale recinzione che circonda l’intera area portuale ha sancito, in piena sinergia con l’assurda linea tramviaria, il definitivo scollamento della città dal suo naturale elemento, il mare e lo Stretto, che in altri luoghi viene percepito come bene comune e opportunità di sviluppo, e qui da noi viceversa quale esclusiva pertinenza di crocieristi e pataccari.

È notizia recente che al vertice di questo Ente si siano prodotti degli avvicendamenti apicali. Credo che l’auspicio di ogni buon messinese non possa che essere un cambio di passo, in direzione del coraggio e della fantasia, in chi sarà oggi chiamato a fare le scelte che interesseranno il domani.

 

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