Riuscireste a immaginare un porto senza marinai? O senza barche? O senza quel vivace e articolato brulichìo di uomini, animali e cose che testimonia di operose attività connesse ai commerci marittimi, alla cantieristica, alle pratiche alieutiche?

Credo che ogni porto degno di questo nome tragga i propri elementi identitari da uno o più di tali indicatori, tutti in qualche modo contrassegnati dal movimento. Il movimento degli scaricatori, dei piloti dei diversi mezzi che in quell’area si avvicendano per scaricare o caricare merci o persone, dei passeggeri in attesa di imbarcarsi, dei pescatori che ritornano da una battuta di pesca o si accingono a intraprenderne una.

Se guardiamo alcuni documenti iconografici della Messina del passato tale formidabile intreccio di economia, antropologia e società ci appare in tutta evidenza. La Veduta del Porto di Messina, dal Palazzo del Senato (1791) di Jacob Philipp Hackert (1737-1807), pittore di paesaggi tedesco amico di Goethe, è lo straordinario mosaico di un’umanità costiera che attende alle occupazioni che fanno grande e importante la propria città:

 

 

 

Analoga impressione di fervore mercantile e sociale si ricava dalla bella fotografia della Marina di Messina, ad opera di G. Welbatus (1880 ca.)

 

 

E, ancor più, quelle del Porto di Messina di Giorgio Sommer, Ledru Mauro, Giacomo Brogi, e la moltitudine di fotografi che si sono cimentati, dalla seconda metà del XIX secolo fino ai primi anni del XX, prima del rovinoso sisma del 1908, nel ritrarre questo angolo di mondo:

 

 

Cosa ci mostrano queste immagini? Centinaia di botti, di carrimatti, di persone che a vario titolo si affaccendano nell’area portuale, brulicante puzzle umano che sempre si riunisce e sempre di nuovo si scompone. E negozi, e cittadini che passeggiano, e mercanti che declamano la loro mercanzia. Un angolo di mondo in verità oltremodo vivo, vitale, effervescente. Un elemento identitario che ha probabilmente attraversato millenni di storia ancorché di alcune stagioni di esso non ci sia pervenuta, per ovvie ragioni, alcuna testimonianza iconografica.

E oggi?

Se attraversiamo il Corso Vittorio Emanuele dalla Stazione Marittima fino alla Capitaneria di Porto il paesaggio è quanto mai deprimente. Gli splendidi ghirigori liberty del Palazzo Doganale si ergono ormai logori e privi di senso, oppressi e mortificati dalla linea tramviaria, dal frastuono del traffico, dagli enormi skylines delle navi da crociera che scaricano le loro frotte di turisti mordiefuggi. L’area del Porto, definitivamente sottratta ai messinesi da una burocratica recinzione che vuol fare concorrenza agli sbarramenti antimessicani di Trump, si è ormai ridotta ad anodino parcheggio di auto (di chi poi? È un mistero) senza che i pescatori in erba di un tempo possano accedervi per provare ogni tanto il brivido di tirar fuori dall’acqua un’azzurrina guizzante preda. Rimangono i gazebo per l’accoglienza degli usaegetta, e di notte qualche passante di colore che cerca di dare ristoro a qualcuno per poter campare.

Cosa abbiamo fatto per meritare tutto ciò? Se andate a Barcellona di Spagna, a Marsiglia, a Malta, in tutto il Mediterraneo, i porti mantengono ancora, nonostante le naturali modificazioni intervenute nelle rispettive società e nei rispettivi territori, l’aura dei secoli passati, come bene ci ha raccontato quello straordinario testimone che è stato Predrag Matvejević.

Da noi, qui a Messina, il Porto può invece essere eletto a emblema oltremodo pregnante di quello status di non-luogo che ha finito col contrassegnare l’intera città.

Io non sono un geografo, né uno stratega di politiche territoriali. Non mi intendo di water front, né di patto per la Falce, né di tutte le diavolerie che politici, cattedratici e burocrati hanno escogitato per dare un qualche senso alla propria attività. Sono un modesto osservatore della realtà. Di quella di ieri e di quella di oggi.

E mi sento di affermare che sul Porto di Messina si è perpetrato un genocidio culturale.

 

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