Luca Lotti, Ettore Rosato, Roberto Giachetti, Maria Elena Boschi, Andrea Romano, Lorenzo Guerini, Matteo Orfini, Emanuele Fiano, Matteo Richetti, Alessia Morani, Debora Serracchiani. E così via.

In questa scarna enumerazione di politici risiede il dramma di tutto un partito. Un partito che ha per anni avuto in mano le sorti del Paese, che avrebbe dovuto condurre verso un futuro migliore, e che viceversa oggi si trova a balbettare scompostamente senza esser più in grado di indicare una rotta, ripetendo stancamente vuoti mantra da opposizione che non fanno breccia nel cervello e nel cuore dell’elettorato.

Perché parlo di dramma? Perché il burattinaio cui i personaggi sopra enumerati hanno affidato le loro carriere politiche è della loro stessa pasta. Lo caratterizzano in pari grado la smisurata ambizione, una sbruffonaggine congenita da scugnizzo malcresciuto e la distanza siderale dai politici che hanno fatto grande l’Italia, da De Gasperi a Togliatti, da Moro a Berlinguer, cui – mischino! – gli sarebbe assai piaciuto somigliare.

Costui, uno dei due Mattei che ha affossato la politica italiana procedendo a una sistematica (metaforica) distruzione dei pozzi che alimentavano la dialettica democratica, pur essendo stato sconfessato clamorosamente in sede elettorale continua a determinare di fatto un Aventino del Partito Democratico dalla politica reale. Un Aventino dalla società civile, dalla gente comune, dagli intellettuali, dai giovani e dal mondo del lavoro. Un tale scollamento del maggior partito sedicente di sinistra dal cuore del Paese, credo che non lo si sia mai registrato a un simile livello in tutta la storia repubblicana.

Il risultato di tale situazione si coglie subito nella progressiva involuzione della politica nazionale e dei suoi contraccolpi sulla società, sulla vita di ogni giorno e sulla qualità di essa. Il primo Matteo (Renzi) ha consegnato al secondo (Salvini) un paese frastornato e pieno di paure, timoroso del futuro e diffidente anche di se stesso. Rancoroso, aggressivo, forte con i deboli e debole con i forti. Chiacchierone e inconcludente. Vigliacco. Vengono in mente le considerazioni svolte da Umberto Eco a proposito del “fascismo eterno”, di quel fascismo retorico e luttuoso sempre pronto a risorgere contro nemici inesistenti. Un paese incattivito ed egoista, per il quale gli articoli della nostra bella Costituzione appaiono non rivestire più alcun senso.

Proviamo dal Centro a gettare qualche scandaglio in periferia. C’era un politico siciliano di destra che aveva costruito la propria carriera sul perbenismo doppiopettista e sull’essere stato amministratore non malvagio nella sua città. Costui decide un giorno di cavalcare la tigre dell’orgoglio e dell’indipendenza isolana. E giunge (potenza dell’eterno trasformismo nostrano) a diventare Governatore dell’Isola. Un’isola destinata, nei suoi slogan, a “diventare bellissima”.

Oggi iniziamo a comprendere in cosa è consistito per il Presidente Nello Musumeci questo mirabolante processo d’imbellimento. Più che imbellita la Sicilia dell’era Musumeci appare imbellettata. La politica regionale spicca per la sua mancanza di idee, per la progressiva inoperosità legislativa, per lo smantellamento sistematico delle (poche) cose buone consegnatele dall’Amministrazione precedente. Per gli scandali, per i molti inquisiti (quattro assessori e sedici deputati), e tra quei molti davvero parecchi della corte presidenziale. Troppi per un Presidente per bene.

Da ultimo, quest’uomo in doppiopetto si esibisce in un perverso patto di alleanza e mutuo soccorso con quella Lega (quella del secondo Matteo) che alla Sicilia e al Meridione tutto ha arrecato e ancora arrecherà danni enormemente maggiori di quelli fatti dai Savoia. Complimenti, Mr. Nello. Avanti così, nel segno della bellezza!

Scendiamo ancora più in periferia. Nel cuore di tenebra della nostra periferia messinese.

Questo terzo capitolo della triste vicenda italiana-siciliana-messinese potrebbe essere titolato: Quando la bottega prende il sopravvento.

Scrivevo un paio d’anni fa, su questo stesso blog: la città delle Tarìgghie. Poi, a distanza di un anno, è emersa anche la città dei Suv e delle cacche di cane. In questo momento – anno di grazia 2019 – gode invece di grande prestigio la città dei putiàri.

C’è che a Messina appare un sindaco che a prima vista è un simpaticone. Gli piacciono i colpi di teatro, è un fior di decisionista, dichiara subito di voler scardinare tutto il marcio che ancora deturpa la città. Si batte contro tutti i poteri forti, dalla Magistratura ai gruppi economici alla Massoneria, e chissà contro chi altri ancora. Per di più è uno genuino, suona la zampogna e gli piacciono le buone vecchie tradizioni della sua piccola patria. E la gente lo adora. Impazzisce. Cazzo, ecco quello che ci voleva dopo quel Talebano di Accorinti!

Poi i mesi passano e le cose non cambiano. La monnezza resiste imperterrita. Il traffico cialtrone più che mai. I vigili fortunato chi ne vede uno. Le baracche paiono fatte di cemento armato, non vanno via neanche a cannonate. In compenso c’è una deliziosa soap opera elettorale che tiene tutti col fiato sospeso. Anche se poi finisce in vacca.

Ultima scena di questi giorni. Si comincia a pensare di riportare il traffico veicolare a Piazza Cairoli. I putiàri hanno fatto blocco storico e pretendono giustamente che si smantellino queste oscenità di isole pedonali. Si vede che la gente quando passeggia liberamente per le strade senza riempirsi i polmoni di scappamenti si scorda di comprare. E allora vai col liscio! Per la linea tramviaria alla Blade Runner ci vorrà ancora qualche mese, ma questa piccola innovazione si può fare già adesso.

 

Cari Mattei, Nello, Cateno, il tempo è dalla vostra parte. Kali Yuga.

Ricordatevi però il buon vecchio Nietzsche.

Così parlò il viandante che soleva chiamarsi l’ombra di Zarathustra; e prima che alcuno gli rispondesse ei die’ di piglio all’arpa del vecchio mago, incrociò le gambe e volse lo sguardo calmo e saggio intorno a sé: — ma le sue narici aspiravano lentamente e dilettosamente l’aria, come chi in un paese nuovo aspira, curioso e cupido, un’aria nuova.

Poi si mise a cantare con una specie di ruggito:

“Il deserto cresce, guai a chi in sé cela deserti”.

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments