Muoviamoci da Benjamin, dalla sua filosofia della storia: C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Ma una tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Ci insegnava Aldo Moro, in uno dei passaggi più intensi del suo magistero: …se fosse possibile dire saltiamolo questo tempo e andiamo direttamente a domani credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi…si tratta di vivere il tempo che ci è dato da vivere…con tutte le sue difficoltà.

E arriviamo in Sicilia, attraverso il massimo geografo italiano, Lucio Gambi che, nell’introdurre la imponente Storia di Einaudi, osservava che da noi quella che definiamo regione “…si distingue, a volte in modo esclusivo, per idiomi, costumi familiari e sociali che risalgono ad epoca remota:  le situazioni e le forze che impediscono ora una sua ristrutturazione…”.

In una riflessione del dopo guerra, l’Aglianò, poi condiviso da Sciascia, che lo affidò ai tipi della <Memoria> di Elvira Sellerio, si era mosso in fondo su questo stesso tema, quello che da noi precipua preoccupazione fosse quella “di mantenere inalterati gli interessi e di perpetuare la vecchia struttura feudale”. 

Da quella cultura infatti si erano perpetuati blocchi clerico-agrari e mafiosi che avevano sostanziati separatismo, utilizzazione del banditismo, autonomia regionale <esagerata>, con derivanti legislazione e prassi di potere connotate esageratamente da latitanza etica. 

Un’autonomia che, con il suo discendere dallo statuto albertino, resterà estranea alla lettera e ai valori della costituzione repubblicana. Dopo Portella della Ginestra, addirittura, per quella cultura, che dà sostanza alla mafia, consentirà a quella mentalità (utilizzando la definizione del Pitrè, che già allora sembrava anticipare, pur nell’ apparente riduttivismo che molti utilizzarono come liberatorio, quello che invece sarebbe stato il senso chiarissimo del terzo comma del 416 bis) vie parlamentari al potere; senza alcun adeguato contrasto. Certo – soprattutto a fine anni ’70 e a primi ’90 – si manifesteranno tragici, dolorosissimi momenti di rottura, ma, ogni volta saranno riassorbiti dalla lunga durata da un termidoro di lunga durata, di società e di governo, nel permanente e consueto rito delle responsabilità rimosse. 

Anche i nostri poveri eroi, morti ammazzati di mafia, che volevano rendere più gentile il vivere in questa terra, come dice il nostro appello del luglio’92, saranno coperti da rimozione ed oblio, fastidio anche. Il mantra della diversità, rafforzato dalle peculiarità statutarie, ha perpetuato velleitaria competizione, estenuanti enfatizzati, soprattutto vittimistici, bracci di ferro con istituzioni nazionali, quasi totale assenza nei processi di nuova costruzione di cittadinanza. 

Ma oggi che quasi tutte le regioni sono ad un punto di non ritorno sui cammini del degrado, che noi avremmo avuto la capacità di inquinare tutto il sistema paese ricordiamo che lo aveva profetizzato Dossetti su Cronache sociali, subito dopo Portella della ginestra; Già la palma sarebbe andata al nord, scrivevano anche Sciascia e la Padovani. 

Persino la riforma inventata da noi, quella dell’elezione diretta di sindaci e presidenti, sta dimostrando di non non essere riuscita a modificare il modo perverso della conduzione di partiti e politica. 

Nel ‘92 , dopo le stragi, avevamo voluto sperimentare l’elezione diretta, come primo passo della riforma delle deresponsabilizzanti congregazioni-partito? Ma a Gargonza i poteri illuminati, quella dalla definizione non solo teologica, ma anche sostanzialmente a-costituzionale dei partiti, dissero a chi la pensava diversamente, lo scriveva Eco su Alfabeta 2, : “…ragazzini lasciatici lavorare.” E questo continuò anche dopo, anche nella mistificazione delle primarie.

Così, con quel sapore di morte in bocca invece del sindaco dei cittadini, inteso come the power at the next doar , il potere alla portata dei cittadini, quella legge inventò Cuffaro e Lombardo, e con loro: becero padrepiismo, cammini verso Santiago (e relativa indulgenza plenaria), ipotesi auspicata di un rogo di libri, neosicilianismo, saprofitismo della “formazione”, orrida tentata-attuata mercificazione di quasi tutto il patrimonio costiero e di ragguardevoli quadri ambientali ecc.

Con Crocetta, dopo i buoni propositi – vagamente accennati, a volte positivi, poi subito enfatici, contraddittori ed ingarbugliati -, siamo passati ad un risibile “questa sera si recita a soggetto”, o in spettacoli circensi… “sotto la tenda di un circo, perplessi”.

In realtà potremmo dire altro, moltissimo…diciamo solo che stentiamo a vedere del metodo in questa sua follia.

Purtroppo Crocetta c’è stato. 

La politica, ricordiamolo, non riuscì ad offrire altro ai cittadini e quindi allora fu salutato dalla limitata, comunque vincente, adesione di elettori come benemerito. Alcuni dissero che era una speranza possibile.

Ma ammesso che esprimesse, e non era vero ma non lo sapevamo, medicina alternativa per la malattia della regione, sembra oltremodo evidente che, al di là di iniziali momenti euforizzanti, alla lunga non ha offerto esiti di significato probante, …diciamo veramente pochi, quasi nulla e allora? Saremo governati dalla paura di un’assemblea balcanizzata e dai suoi parlamentari atterriti dal sempre meno differibile “rompete le righe”? E, come al solito, è <l’argent qui fait la guerre>?

Oppure, come altre volte, partendo ancora una volta dalla <irredimibile> antropologia siciliana, ricolmi di antica legittimazione, quasi da istituzione parallela, ci limiteremo a dire che non dovremmo finirla di essere velleitari: è vero che siamo in crisi, ma perché non pensare che se noi piangiamo anche “Sparta non ride?… E poi chi in Sicilia ha voglia di ridere.

Prendersela con la <mentalità> come la definiva Pitrè sarebbe come prendersela con la pioggia. In fondo è in crisi la democrazia nel paese, in tutto il paese, nelle altre regioni e poi dappertutto: ad esempio in Grecia, Mediterraneo, Europa, e poi ci sono Stati uniti, Russia, etc.etc.… Appena ti volti, c’è molto, molto altro…un’apocalisse. E sarà la tempesta, il cumulo delle rovine come diceva Benjamin, che ci  porterà al futuro? Oppure dovremo rifugiarci in raffinatezze ironicamente consolatorie alla W. Allen, ad esempio: Dio è morto…anche tanti altri… e noi non stiamo molto bene: perché dovremmo? 

 

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