Se riuscissimo per un attimo a sollevarci (col pensiero, ma seriamente) al di sopra del nostro pianeta, sì da poterlo scorgere nella sua globalità, avremmo forse la possibilità di esaminare le categorie di umanità che in esso si muovono come formiche brulicanti.
Non parlo delle razze, ci mancherebbe. Intendo piuttosto quelle che per me sono le tre forme in cui il genere umano rimane oggi distribuito.
Ci sono gli impauriti, ci sono i feroci, e c’è poi una terza categoria di persone che volta a volta dispiegano uno sguardo pensoso, indignato, triste, spesso anche amorevole e perfino ottimista sulla paura e la ferocia che scorgono intorno a loro.
Questi ultimi sono, secondo me, quelli che si sforzano, con i poveri strumenti che posseggono e nei modi imperfetti in cui a loro riesce, di leggere i segni dei tempi.
“Facci contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del cuore”. Mi è sempre piaciuto questo versetto del Salmo 89, per la sua capacità di suggerire letture diversificate e generare in tal modo sensi sempre nuovi.
Io ad esempio a quel “contare i giorni” attribuisco il significato di un “mantenere il senso della storia”, di un “saper leggere i segni dei tempi”. La sapienza del cuore possiamo infatti, a mio parere, raggiungerla solo nella misura in cui siamo in grado di dispiegare uno sguardo sulla realtà che ci circonda con occhi “aperti nella notte triste, asciutti nella notte scura”, come ci insegna il poeta De Gregori.
Già, leggere i segni dei tempi. Pare che diventi ogni giorno più difficile, tanto che sono in molti a ritenere che per poter migliorare le sorti proprie e quelle del pianeta la soluzione sia quella di aumentare il grado di temperatura della società.
A metà del secolo scorso Claude Lévi-Strauss (un antropologo che poco piacerebbe a Bolsonaro) proponeva di sostituire alla distinzione tra “primitivi” e “civilizzati” quella tra società “fredde” (il cui clima interno è “vicino allo zero di temperatura storica”) e società “calde” (le cui dinamiche sono regolate da un motore a scoppio), le prime tese ad annullare, attraverso le istituzioni e le forme di cultura che si danno, l’effetto dei fattori storici sul proprio equilibrio e la propria continuità, le seconde – come la nostra – volte viceversa a “interiorizzare il divenire storico per farne il motore del proprio sviluppo”. Le prime dunque basate su continui “equilibri”, le seconde amanti degli squilibri come indicatori di vitalità e di sviluppo.
Cos’altro è infatti il capitalismo se non una prassi indirizzata a promuovere sempre di nuovo squilibrio, estraniamento, sperequazione, disparità, barriere, muri tra gli uomini, e anche tra il genere umano e il resto della natura?
Accade adesso che per una serie innumerevole di motivi questi squilibri sembrino esser giunti, per così dire, al capolinea, a un punto di non ritorno. Se in un angolo di mondo al mercato locale macellano pipistrelli e a seguito di una scheggia impazzita di tale atto nel resto del mondo oltre tre milioni di persone muoiono e centosessanta milioni si ammalano, bene forse dovremo concludere che questo motore a scoppio della megasocietà calda, che tutti ormai ci avvolge e ci nutre come placenta, è una boiata pazzesca, anzi un’orrida prigione dalla quale dovremmo tutti cercar di evadere.
Evadere? Macché! In questa prigione alcuni si trovano mica male, ci sguazzano anzi beatamente perché (come accade nei film in cui il mafioso continua a comandare anche dal carcere) al suo interno non tutti i detenuti sono uguali, e accade che affinché pochi, pochissimi stiano di lusso è necessario che moltissimi, la maggioranza debbano sacrificarsi a vivere da schifo.
Questi ultimi, i poveracci, non sono in grado di leggere i segni dei tempi perché stando sempre a capo chino non hanno mai il tempo di gettare uno sguardo all’orizzonte. Moltissimi di loro, ormai del tutto instupiditi e resi ciechi, credono di vivere nel migliore dei mondi possibili e non si accorgono di far da puntello ai potenti che li tengono in stato di cecità.
Gli altri, i privilegiati d’altronde, se ne stracatafottono dei segni dei tempi. Fintanto che la giostra gira come piace a loro i tempi sono buoni. Alcuni anzi ritengono che si dovrebbe dare un’ulteriore stretta ai miserabili, giusto per garantirsi tempi ancora migliori.
Un esempio recente. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel giro di due giorni ha citato Don Milani e Tomasi di Lampedusa. Alla prima citazione “I care” (mi prendo cura degli altri, del pianeta, degli ultimi perché voglio restare umano) ha fatto seguito la cinica “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima” (devo rimescolare un po’, ma non troppo, le carte per poter continuare a fare il mazziere). Un bel modo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Ancora una volta quello che va perseguito è il “tornare come prima”, il garantire al mafioso che sta nella sua prigione dorata di poter continuare a gestire i suoi traffici. Come scriveva Orwell, tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
L’antropologo già da me citato, quel francese che ha amato l’Amazzonia tanto quanto Bolsonaro la odia, così profetizzava, sempre settant’anni or sono:
“Lo sviluppo delle conoscenze preistoriche e archeologiche tende a disporre nello spazio forme di civiltà che eravamo propensi a immaginare come successive nel tempo. Il che significa due cose: anzitutto che il «progresso» (se questo termine è ancora adatto a designare una realtà diversissima da quella a cui era stato in un primo tempo applicato) non è né necessario né continuo; procede a salti, a balzi, o, come direbbero i biologi, per mutazioni […..]. L’umanità in progresso non assomiglia certo a un personaggio che sale una scala, che aggiunge con ogni suo movimento un nuovo gradino a tutti quelli già conquistati; evoca semmai il giocatore la cui fortuna è suddivisa su parecchi dadi e che, ogni volta che li getta, li vede sparpagliarsi sul tappeto, dando luogo via via a computi diversi. Quello che si guadagna sull’uno, si è sempre esposti a perderlo sull’altro, e solo di tanto in tanto la storia è cumulativa, cioè i computi si addizionano in modo da formare una combinazione favorevole”.
Con tali parole veniva messa in dubbio la concezione unilineare e progressiva dello sviluppo delle civiltà. Circa un decennio più tardi, in Italia, Pier Paolo Pasolini, nella forma poetica che gli era propria, contestava l’identificazione tra “sviluppo” e “progresso”, segnalando profeticamente come la società dei consumi avrebbe sortito – come poi è di fatto avvenuto – quella devastante “scomparsa delle lucciole” che ha progressivamente impoverito gli orizzonti naturali e culturali dei nostri angoli di mondo, facendo smarrire le identità locali e producendo una perniciosa mutazione antropologica che ha arrecato danni alla qualità della vita e ai rapporti delle comunità con gli ecosistemi in cui esse sono inserite.
Chi dunque è oggi in grado di leggere i segni dei tempi? Da una parte ci stanno gli integrati, i boss che gestiscono gli affari dalle loro prigioni dorate, ma anche i loro ascari, tutti i politici, gli economisti, gli intellettuali al loro servizio, a cui sta bene la realtà che li circonda.
In Italia e nel mondo sono legione. Si tratta di grandi capi di stato, di uomini che governano multinazionali, di potenti, di gente dalla grande visibilità pubblica che riesce a narcotizzare anche grandi masse di poveracci, eterni Lazzari che adottano modelli di comportamento e condividono idee in contrasto con i loro reali interessi. Fanno, per così dire, “girare all’indietro la ruota della storia”. Irrimediabilmente stolidi.
Dall’altra parte operano, pensano, agiscono persone come Serge Latouche, Cornelius Castoriadis, Jeremy Rifkin, Zygmunt Bauman, moderni critici del consumismo e teorizzatori della decrescita felice, che hanno variamente avviato un processo di demitizzazione dello sviluppo fine a se stesso partendo proprio dalla considerazione che non ci sia rapporto di conseguenza tra crescita economica e benessere, e che anzi il consumo (o, meglio, il suo eccesso) conduce al peggioramento della qualità dell’esistenza degli uomini e della vita dell’intero pianeta. Alla perdita della felicità.
Da noi, qui in Italia ma con una voce limpida in grado di raggiungere l’intero pianeta, Jorge Mario Bergoglio ci offre pressoché quotidianamente spunti per riflettere sul nostro grado di umanità e su come l’abbandonarci alle lusinghe delle mitologie (quella sovranista, tanto per citarne una) che molti ci propinano rischi di abbassarlo sempre più fino a ridurci a meri tubi digerenti.
Cos’altro aggiungere? Il capitalismo è un cane morto, ma la società – questa enorme planetaria e feroce società – non riesce a staccarsi dalla sua carogna putrescente. Infatti continua ad abbeverarsi a quei tessuti infetti. Gli esempi di Russia e Cina, e delle multinazionali sparse nel mondo, continuano a ricordarci che il genere umano è oggi sempre più oggetto di preda da parte di chi pratica la barbarie, e il suo sguardo sulla realtà si fa’ sempre più opaco.
Invece che guardare la luna guarda il dito che gliela indica.
I segni dei tempi dunque? Prepariamoci a vivere il nostro personale dopoguerra pandemico ma evitiamo – per carità! – di farceli decriptare dai falsi profeti dei nostri giorni.