La mattina del 24 dicembre, in maniera non troppo diversa da molti italiani, gli abitanti di Sydney formano lunghe file davanti alle pescherie.

La differenza principale sta nel fatto che qui la vigilia è poco sentita, e i pezzi da 90 si sfoderano solo a partire dal pranzo di Natale in poi.

Per me e la mia compagna, entrambi messinesi, cambiava poco, dal momento che eravamo ai fornelli già dal 22 ed eravamo pronti a sfornare piatti fino alla Befana (che qui non si festeggia, ma insomma, ci siamo capiti).

Come da tradizione sicula, avevamo preparato più antipasti di quelli che una persona normale possa mai digerire, immancabile pesce, dolci e gelati a rinfrescare l’estate australiana (unica eccezione il fritto, ma ci saremmo rifatti per Capodanno).

Cucinare ci ricordava la nostra fortuna di quel momento, alla fine di un anno che di fortuna ne aveva vista ben poca.

Il 2021 di Sydney era stato un percorso pieno di bozzi e malecurve. Ad inizio anno, mentre il mondo superava la terza ondata di Covid e andava verso le riaperture, qui in Australia si spostava sempre di più la data di scadenza. Si era inseguita la chimera del tasso zero, e per molto tempo era perfino stata raggiunta. Le cose si erano messe così bene che, quando era arrivato il vaccino (con enorme ritardo), la gente lo aveva snobbato perché tanto qui “non ce n’è Covid” (parafrasando la cara signora di Mondello). Il governo ci aveva dato una carezza gioiosa sulla testa, dicendoci di non preoccuparci, di tempo ce n’era quanto volevamo.

Il tempo poi si era improvvisamente ristretto quando ci si era resi conto che il tasso zero era, appunto, una chimera in tempi di pandemia, e Sydney aveva affrontato uno dei lockdown più lunghi al mondo, durato quasi 4 mesi, con pesanti restrizioni e ripercussioni su vita sociale ed economica.

La gente si era risvegliata di botto, il governo aveva fatto finta di essere stato lineare e severo fin dall’inizio, e il tasso di vaccinazione era passato in relativamente poco tempo dal 7 al 95% della popolazione.

Con l’aumento delle vaccinazioni era arrivata finalmente la riapertura dei confini: dal marzo 2020 era infatti vietato USCIRE dal Paese. Quasi 2 anni di forzata lontananza da casa, in nome di quel maledetto tasso zero che poi si era rivelato una fregatura, come tutto ciò che è stato toccato da questo virus.

Baci e abbracci in aeroporto, dissolvenza.

Tutto è bene quel che finisce bene.

 

Beh, quasi.

Perché la variante Omicron nel frattempo è sbarcata anche a Sydney, passando inizialmente sotto silenzio. Il governo aveva tutte le intenzioni di riaprire, togliere le restrizioni, mettendosi alle spalle lockdown e blocchi.

I numeri sono continuati a crescere per tutto dicembre, all’inizio quasi senza accorgercene, sentendoci invincibili con quei numeri tondi delle vaccinazioni, sentendoci distanti da quel che succedeva in Inghilterra, in Germania, a casa.

Pure quando i nuovi casi sono arrivati a 6.000 – per intenderci, durante il lockdown non se ne registravano nemmeno duemila giornalieri – era qualcosa “da starci un po’ attenti”.

Sì, mentre cucinavamo ci sentivamo fortunati per essere arrivati alla fine di quell’anno con qualcosa da celebrare.

Era ora di dare gli ultimi ritocchi prima del gran finale.

È stato allora che, senza motivi apparenti, mi sono dovuto sdraiare.

 

La notte prima della vigilia, non so se siano stati più i dolori o la difficoltà ad accettare quel che stava accadendo dopo mesi di negazioni di massa.

Qui è estate, qui siamo tutti vaccinati, qui siamo al sicuro.

Non può essere.

Al mattino i dubbi diventano preoccupanti certezze, ma per confermarle – e poter tranquillizzare me stesso, la mia compagna, gli ospiti per quella sera – corriamo a cercare un test antigenico.

Come un film di Natale sballato, invece di un regalo all’ultimo minuto, cerchiamo in tutte le farmacie, dove commessi esauriti fanno gesti a braccia ormai, dicendo: no, tutto finito.

Alla fine ne troviamo uno per caso, lo portiamo a casa, facciamo il test. A questo punto, quando vedo le due linee, ho già smontato molta della mia negazione come un albero di Natale che ormai non serve più.

Usciamo per fare il molecolare e scopriamo che in questo Natale a tema Omicron, le file davanti alle pescherie si sono decisamente spostate: il drive-through sotto casa ha una fila di quattro ore ancora prima di aprire. Altrove i giornali parlando di file di sei ore e più.

Intanto la febbre sta cominciando a salire. Che fare? Ci dicono che fuori Sydney i centri per Covid test non sono ancora stati presi d’assalto, così facciamo un’ora di strada per arrivare nella periferia estrema della città. Ci sono poche macchine, e quando è il nostro turno l’infermiere prima quasi mi scava nel cervello, poi avverte che, con Natale e Santo Stefano davanti, ci potrebbero volere “dai due ai quattro giorni” per il risultato (alla fine saranno cinque).

Ritorniamo in città, e tutto quel che ci resta da fare è cancellare la cena per vigilia, Natale e fine anno.

Capiamo benissimo, dicono gli amici, che a loro volta sono alla ricerca di un centro test.

Almeno avremo cibo per una settimana, dice la mia compagna guardando la tavola già apparecchiata in cui noi due sembriamo navigare.

Io non dico niente, mi metto a letto e non mi rialzo per qualche giorno.

 

Molti amici sentiti in questi giorni, di quelli con le due linee, hanno detto di essere asintomatici o quasi: qualche malditesta, un po’ di maldigola, una febbriciattola per un paio di giorni e via.

A me è andata diversamente. La febbre ha cominciato a salire già la sera del 24, per farsi martellante per tutto Natale insieme al mal di gola e ai dolori muscolari, e ha finito per mischiarsi ai 30 gradi fuori, all’idea delle ferie appena iniziate, alle news da tutto il mondo.

Il 25 diventa un Natale in cui si fa più difficile aprire i pacchi su Skype insieme alla famiglia lontana in Sicilia. Dove tutto sembra lontano, troppo lontano, quasi irrangiungibile.

Saltate le cene, le tradizioni, le scuse, saltati i rimandi, i progetti, saltati i riposi, coi respiri a farsi sempre più difficili mentre il petto stringe e fa male, come se l’aria dovesse passare da un canale fattosi improvvisamente troppo stretto. Quando la febbre non scende, chiamiamo il numero verde Covid, dove una signorina ci fornisce la Cura Australiana per tutti i mali: paracetamolo e riposo, riposo e paracetamolo.

Non si può fare altro?, chiede la mia compagna.

Se la febbre arriva a 40, lo porti in ospedale, risponde la signorina senza scomporsi, poco prima di suggerirmi limonate e ghiaccio per gestire le alte temperature – e chissà, forse anche un leccalecca per i down da infezione.

La mia compagna porta avanti la casa e me facendosi in 4, mentre piano piano realizziamo che l’essere emigrati ci porta ad essere lontani da tutti gli affetti in Italia, e il Covid ci separa da quelli di qua. Viviamo su un’isola fatta di pillole, sonni interrotti, cibo avanzato e dolori ovunque, tanto che, quando finalmente arriva il messaggio che conferma la positività, ormai su quest’isola ci abbiamo costruito capanne e scritto SOS sulla sabbia.

Ci tengono a galla messaggi e telefonate di amici e famiglia, semplici “come stai”, pacchetti cibo lasciati sulla porta, pensieri in giornate estive che guardiamo dal balcone mentre Natale si fa Capodanno e il termometro comincia a farsi più pietoso.

Ci tiene su il pensiero di essere in due ad affrontarlo, della fortuna che abbiamo anche in un momento senza fortuna, come ossigeno a rianimarci dopo una mattina più difficile del solito.

Perché non sta certo a me dire che il Covid non è uno scherzo, e non solo perché ho beccato il pacchetto completo dei sintomi; ancor più di prima, posso solo immaginare il percorso tutto in salita di chi è finito attaccato ad una macchina o peggio, e so di dover comunque sempre essere molto grato.

Anche per non aver perso il gusto, come da Omicron: questo ci permetterà di cucinare una sicilianissima pasta al forno per la sera del 31 in isolamento.

Non per festeggiare o per particolare amore per quella data: solo per concederci ore di pausa nonostante tutto, mentre i casi, al momento in cui scrivo, sono saliti a 21.000 al giorno.

Per ritornare a casa per un attimo, sperando di tornarci presto per davvero.

Per cominciare un anno senza aspettative se non quelle che sia decente anche negli schiaffi.

Noi saremo qui a prenderli e a darli, come sempre.

Buona pasta al forno a tutti.

 

Marco Zangari

www.marcozangari.it

 

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