La sveglia scatta mezz’ora più tardi rispetto ad un mese e mezzo fa. Colazione, poi al parco con il cane. Qualche ciclista, qualche coppia che passeggia, un paio di persone che fanno power-walking senza troppa convinzione. Una volta tornato a casa, mi siedo al computer e inizio a lavorare. Intorno all’una pranzo e prendo il caffè sul balcone. Da casa mia si vede, stagliata sull’orizzonte limpido come quello di uno sfondo Windows, una bandiera australiana che viene sbattuta dal vento. Intorno alla bandiera, la stagione sta cambiando: siamo andati in lockdown che era ancora estate, e adesso un vento freddo si insinua tra gli alberi, e rende più appuntito e brillante il cielo di un blu perfetto. Dopo gli incendi e il normale inquinamento di Sydney, il cielo adesso sembra quello che sta meglio di tutti. A lui, non manchiamo di certo. Lo stesso non si può dire del contrario.

È ora di pranzo, e chiaramente l’aria è intrisa dell’odore del cibo preparato da chi, come me, è costretto a stare in casa. Viene su odore di carne, di spezie forti, di curry. In Sicilia, penso, avrei sentito odori molto diversi. Ogni tanto li commento col mio cane, lì accanto. Lui mi ascolta con pazienza, anche se gli ripeto cose già sentite.

Intorno poche auto. Non che da queste parti sia cambiato granché, col lockdown. I quartieri residenziali di Sydney non sono esattamente vivaci, qui la gente fa vita tranquilla, va a dormire presto e taglia sempre l’erba dei giardini alla stessa altezza. Scendere in strada e non vedere auto, quindi, non sconvolge come vedere Via del Corso deserta o piazza Cairoli senza gente. Quando vediamo in tv le immagini del centro di Sydney vuoto, tra George Street e l’Opera House, ci viene da pensare che sia solo una domenica mattina più lunga del solito. E senza turisti, ovviamente.

Dopo pranzo, lavoro fino alle 17 senza pause. Come dicevo nello scorso articolo, nonostante slogan e belle promesse, in questa faccenda non ci siamo tutti dentro alla stessa maniera – ma nemmeno un po’. Io sono uno dei fortunati che è riuscito a conservare il lavoro in tempi di hibernation. Non solo, ma la mole di lavoro è anche notevolmente aumentata, dal momento che, com’era prevedibile, molte più persone si sono trovate ad avere bisogno di un aiuto in questa situazione.

Io e la mia ragazza siamo stati fortunati. Lo sappiamo, e ce lo diciamo spesso – perché sarebbe bastato poco per trovarci nella situazione di migliaia di connazionali, bloccati qui senza stipendio e senza poter tornare a casa, in un Paese costoso che, in tempi di crisi, si è fatto ancora più esigente.

Lavorare, ne sono certo, ha cambiato anche la nostra visione di questa quarantena. Ci siamo sicuramente trovati con più tempo a disposizione di prima, ma senza mai provare quella sovrabbondanza di ore, tra progetti grandiosi e noia asfissiante, che ha caratterizzato il lockdown di tantissimi altri -sia qui, sia in Italia. Il venerdì sera scatta la Birra Più Buona, così come succedeva prima del virus, e la domenica sera abbiamo ancora lo Scazzo Del Giorno Prima. In questo -oltre naturalmente a pagarci da vivere – il lavoro ci è servito tantissimo. Lo so, lo sappiamo che per tanti non è stato così, che per parecchi la salita vera comincerà solo a breve. E’ per questo che ce lo ripetiamo spesso, specie in quei giorni quando il sole va via e le pareti sembrano stringersi un po’ di più.

Dopo le 17, torno al parco col cane – che, arrivato a questo punto, è stanco delle mie storie sempre le stesse. Lì adesso trovo una moltitudine di persone, ciclisti, runners, famiglie a passeggio. Prima del virus questo parco era praticamente semi-sconosciuto, adesso sembra Rimini a Ferragosto. Le restrizioni qui sono state molto più leggere che in Italia, e a tutti è stato permesso uscire per esercizio fisico (e, detto piano che sennò suona male, per la salute mentale). Siamo tutti nella nostra ora d’aria -e d’altra parte, non fa strano che ci sia permesso di uscire? O meglio: non fa strano che non ci faccia più strano, dover pensare di aver bisogno del permesso per uscire?

Passeggio col cane che cerca il suo luogo ideale per una pisciatina liberatoria e penso a quante cose sono cambiate in questi mesi. A come siamo passati in pochi mesi da una superficiale anarchia, un atteggiamento da “che mi frega”, alle autocertificazioni, le multe, gli aggiornamenti, le app che ti seguono anche al cesso. Non le mettiamo più in dubbio perché sono necessarie, sia chiaro, ma ci ricordiamo la strada che abbiamo percorso? Come siamo diventati quelli che, alla finestra, chiamano i vigili perché c’è un runner-untore sotto il balcone?

Qui al parco l’atmosfera è rilassata. Gli australiani sono stati fortunati finora, il virus è passato senza far grossi danni, il lockdown ha funzionato. C’è stato più panico prima, con le notizie dall’Europa e la corsa alla carta igienica, che durante. Poi a tutto ci si abitua nella vita, nel bene e nel male. Noi italiani di qui abbiamo vissuto l’onda lunga di quel che succedeva in patria, e la sensazione che abbiamo ora addosso è che siamo stati mentalmente in lockdown da molti più tempo dei nostri vicini di casa. Abbiamo vissuto tutte le fasi: l’orrore nel sentire le cifre durante il picco, la commozione a vedere la gente cantare dai balconi (qui al massimo ho il vicino libanese che il sabato mattina mette uno strano folk-rock arabo che ormai mi è entrato in testa). Abbiamo sentito la stanchezza di amici e famigliari, la loro paura, la loro rabbia. Quando è arrivata l’ora del nostro lockdown, non dico che eravamo preparati, ma nemmeno troppo sorpresi.

Gli australiani l’hanno presa, al solito, molto easy: una volta che le cifre sono drasticamente diminuite, erano già con il surf in un braccio e una cassa di birre nell’altro. Hanno tutti aderito alle misure di sicurezza (ancora una volta, siamo stati bravi nel compitino), ma ora sono stanchi. L’inverno sta arrivando, e sembra quasi una minaccia alla Game of Thrones, dal momento che ci si aspettano altri casi allora. Ma ora, qui al parco, l’aria è fresca ma primaverile, pulita, e al domani nessuno ha voglia di pensare. Nemmeno le migliaia di persone in fila fuori dagli uffici della previdenza sociale di qui, in attesa di un assegno di disoccupazione, pensano al domani – ma per motivi molto diversi.

Una volta rientrato a casa dalla passeggiata, e ritornata la mia ragazza dal suo lavoro (dichiarato essenziale, e quindi richiesta la sua presenza fisica in ufficio), si apre, sia pure per qualche ora, il grande interrogativo: e ora?

Come tantissimi altri, anch’io mi ero fatto tutto un programma per questo lockdown: le cose in sospeso che avrei concluso, quelle che avrei cominciato, i libri che avrei letto, quelli che avrei scritto, le serie tv con cui mi sarei messo in pari, le ricette che avrei cucinato.

E come tantissimi altri, ho iniziato con grande entusiasmo, pieno di buona volontà, felice dei primi risultati.

E poi, come tantissimi altri, ho perso un po’ di entusiasmo, ho affogato la buona volontà in attività inutili, ho lasciato perdere bilanci e calendari.

Inutile dire che anche la mia dieta ha seguito lo stesso arco emotivo.

Come gli altri, mi sono fatto condizionare da quel che dicevano tutti all’inizio: un periodo così non ci capiterà più, non avremo mai più tanto tempo a disposizione, dobbiamo necessariamente sfruttarlo al massimo.

Forse il mio non era entusiasmo, ma ansia camuffata. Fatto sta che col tempo ho avuto sempre un pessimo rapporto, non bastandomi mai per fare tutto quel che vorrei, e finendo poi per arrendermi e fare tutto quello che non dovrei -e che mi fa solo perdere altro tempo e sentire ancora più di corsa, e così in loop. Come probabilmente il 90% della popolazione mondiale.

Le intenzioni erano buone, eh. Ho ripreso a leggere libri quasi come ai tempi dell’università, ho iniziato la fase finale del nuovo libro (che mi perseguita ormai da 7 anni), ho cucinato, sistemato, pulito, fatto esercizio, giocato, degustato, tutto, tutto quanto. Poi un bel giorno non è stato un bel giorno, e ho rallentato. Il giorno dopo ho rallentato ancora di più, dal momento che avevo rallentato il giorno prima (per qualche ragione contorta che il mio cervello trovava brillante). MI sono fermato, poi sono ripartito, poi ho mollato ancora. Intanto le news australiane dicevano che il lockdown, visto l’appiattimento della famosa curva, sarebbe potuto finire molto prima del previsto. Lì c’è stato il mix meraviglioso tra l’eccitazione di poter finalmente uscire di casa (ci era permesso uscire di nuovo!) e il panico per tutto le cose rimaste in sospeso, ancora da fare.

Alla fine ho capito questo: che il lockdown, come dicevano tutti all’inizio, non capiterà più (speriamo); di conseguenza non è la nostra realtà, la nostra quotidianità. Piuttosto, è stato uno specchio che ci ha detto chi siamo, che ci piacesse o meno: tutte quelle cose su di noi, che di solito seppelliamo nelle faccende da sbrigare e negli orari da seguire, perchè non le vogliamo ascoltare. E ascoltarle crea fastidio, perchè possiamo aver fatto più cose di quel che avremmo fatto di solito, magari ne abbiamo scoperto di nuove, o ri-scoperto di vecchie, ma siamo quel che siamo, e questo non lo cambia nemmeno un lockdown. Il nostro rapporto col tempo è così sputtanato, così logorato e deviato da social e smartphone e legato a scadenze e abitudini, che richiederebbe un cambiamento sociale, culturale, filosofico, mentale. Certo qualcosa difficile da raggiungere solo con 10 minuti di addominali o un libro letto in più.

Questi siamo, e va bene così. Non lasciamo che il lockdown ci prenda pure questo. Diamocelo noi, stavolta, il permesso per fare l’accidenti che ci va di fare. I conti si faranno più in là, la crescita è lenta e graduale: la birra della sera, invece, è una solida realtà.

Fatto lo slalom in mezzo ai sensi di colpa e alle liste della spesa, si fa sera. È questo il momento nel quale, data la differenza di fuso, ci viene più facile parlare con l’Italia. È quando si attivano le chat con gli amici, quando si chiama casa con Skype. Quando portiamo un po’ di tregua e cazzeggio a loro, e loro a noi, oppure ci impanichiamo tutti insieme e ci sentiamo vicini anche così, ad aver paura per noi stessi e per chi amiamo. È quando ci sentiamo ancora fortunati per avere un lavoro e un tetto, ma la fortuna non basta quando sei lontano da casa, da chi vorresti proteggere e aiutare. È quando capiamo che, nonostante curve appiattite e restrizioni alleggerite e carta igienica che è tornata nei supermercati, nonostante il lavoro e il cane che mi dà ragione e il vicino libanese, non potremo ritornare per chissà quanto tempo. Pensiamo all’estate mancata in Sicilia, pensiamo all’appuntamento annuale con gli amici saltato, pensiamo a casa nostra, dove si pensa sempre a noi e noi a loro.

Sono i momenti più difficili della nostra quarantena.

Non so niente del virus. Non sono uno scienziato. Non so cosa succederà all’economia. Non so quanto durerà. Non so cosa sia andato sbagliato. Osservo tutto, leggo, ma so di non sapere parecchie cose.

Non so nemmeno se ne usciremo migliorati o meno, se davvero andrà tutto bene oppure no, o sì e no insieme. Non so quando riusciremo a trovare un posto per tutte le notizie di questi mesi, per tutti quelle sere che sembravano notti, per tutte quelle promesse non mantenute, per tutto quel dolore mal sopportato.

Non ho verità in tasca. So quel che vedo, nella mia giornata che comincia intorno alle 7 con una camminata al parco. So quel che sento. So quel che mi manca.

Ognuno si sceglie la sua lezione, perché siamo quel che siamo. La mia è che questo periodo non è mai stato una questione di tempo, ma di qualità. La nostra qualità di vita si è abbassata considerevolmente, e forse, allo stesso tempo, ci siamo resi conto di quanto poco basterebbe per elevarla di parecchio. Di quanto poche sono le cose davvero necessarie, e quante, invece, le fesserie di cui possiamo fare tranquillamente a meno.

Di quanto contino, per noi, le persone che contano – nonostante la distanza che ci ha diviso.

Di quanto bene ci farà, alla fine, vederle sane e salve, e abbracciarle come se fosse la prima volta.

Basta poco, per tornare a sentirci umani, per impegnarci ad esserlo un po’ di più.

Basta poco.

Anche questa lezione sembra poco, quasi da rispondere con un “grazie al cavolo”.

Vero. Ma me la faccio bastare.

Poi si vedrà.