In questi giorni caotici e incerti, voglio parlare di un tema troppo presto messo da parte, e del quale (più per costrizione che per scelta) probabilmente si riparlerà ancora a breve, ovvero quello dello smart-working.

È curioso intanto, per me che vivo in Australia, notare che il termine in realtà non viene usato nei Paesi anglofoni (dove si preferisce un più neutrale “remote working” o semplicemente “working from home”). Ed è curioso perché smart lo è davvero. 

Così smart che abbiamo deciso subito di sabotarlo non appena è stato possibile. 

La pandemia, per un tragico paradosso, aveva creato la possibilità, per milioni di lavoratori in tutto il mondo, di svolgere il proprio mestiere da casa. Quel che non erano riusciti a fare rivoluzioni industriali, lotte sindacali, tavole rotonde e ottuse chiusure ad una tecnologia sempre più supportiva, era riuscito a farlo un virus iniziato con un pipistrello dall’altra parte del mondo.

Naturalmente, non tutti hanno potuto avere questa possibilità. Alcuni lavori, per natura, non possono essere esplicati dalle mura di casa, richiedendo la presenza fisica della persona. 

Per altri si è aperta una nuova possibilità, molto spesso così utile e naturale che la reazione comune è stata: perché cavolo non ci abbiamo mai pensato prima?

Già, perché?

Non abbiamo fatto in tempo a risponderci che il lockdown andava verso la sua conclusione, e già si iniziava lo smantellamento dello smart-working. Per tutta l’estate in Italia è stata portata avanti una campagna che mirava a svuotare e delegittimare questo nuovo strumento che ci aveva improvvisamente allargato l’orizzonte della nostra quotidianità. Per settimane commentatori, opinionisti, noti giuslavoristi, sindaci una volta considerati intelligenti, altri che non lo sono mai stati considerati, politicanti e presunte “voci della strada” hanno attaccato il concetto stesso del lavoro da casa – raramente nei fatti, spesso buttandola in caciara al grido di “basta con la vostra vacanza pagata, è ora di tornare a fare sul serio”. 

Le motivazioni erano a volte così grottesche da far sorridere, c’erano le torri del centro da riempire sennò il sindaco di quella nota città del Nord si incupiva, c’erano sottoposti da riportare all’ordine dopo che avevano fatto i cavoli loro per mesi. 

Non propriamente un dibattito intellettuale.

A settembre dicevano: tornate ai vostri uffici e alle vostre fabbriche, non si gioca più, tanto il nemico adesso è la movida.

Ed è chiaro che la movida senza regole è sicuramente parte del problema. Così la prima misura è stata il coprifuoco: colpiamo subito loro.

Intanto la gente ha continuato a lavorare, così come ha fatto anche durante il lockdown, complici tutti i cavilli che Confindustria & co. hanno trovato ai vari Dpcm. Non lo hanno fatto certo per hobby, per convinzioni negazioniste, per superficialità: l’hanno fatto per fame, pura e semplice. 

Era la gente costretta ad andare ancora in ufficio, a prendere i mezzi, e a portare il virus ai familiari che cercavano di proteggere con i loro sacrifici. E attenzione: dovevano, queste persone, sentirsi anche estremamente fortunate ad avercelo ancora, un lavoro, a fronte delle migliaia di disoccupati e cassaintegrati, seguendo quel filone di pensiero che ben conosciamo, gonfiato a dismisura nel ventennio del Premier-Grande Imprenditore: il lavoro è un privilegio che ti è stato concesso, quindi muto e sorridi. 

Abbiamo passato mesi a incazzarci col Billionaire e a parlare di banchi con le rotelle, ed è passata sottotraccia la svalutazione di ogni tutela del lavoratore. Il che non dovrebbe sorprenderci, in un Paese che smonta lotte sindacali e articoli da decenni ormai, ma lo stesso fa specie in un momento così difficile. Non si è parlato dei ricatti (o vieni qui a lavorare, o puoi restartene a casa per sempre), della mancanza di supporti economici (e di come sono stati gestiti “all’italiana” quelli stanziati), del fatto che persino per farsi una quarantena ci si doveva attaccare al cavolo per permessi malattia

Della mazzata letale che il lockdown ha dato a tutti quei maledetti contratti a scadenza che ci sono stati elemosinati negli ultimi vent’anni.

In tutto questo, lo smart-working ha permesso sia di aiutare a contrastare la diffusione del virus, che di far galleggiare l’economia in un momento apocalittico. 

E allora perché questo accanimento

Perché, per quel che mi riguarda, a parte la percentuale di gente che non vedeva l’ora di tornare in ufficio per evitare di commettere un familicidio, tra una riunione su Zoom e un dentino da latte che tiene tutti svegli, non abbiamo sentito la voce più importante in questa storia: quella dei lavoratori.

Abbiamo sentito tutti gli altri, i capetti, gli imprenditori, i politici. Un concetto di base, ripetuto fino alla nausea, era quello che lavorando da casa, non c’era modo di verificare se effettivamente la persona stesse lavorando o fosse impegnata in una maratona Netflix – e l’esempio più classico che si faceva era quello dei dipendenti pubblici, come ha tenuto a ribadire il buon Cateno De Luca scagliandosi contro i dipendenti comunali in smart-working e chiamandoli sfaticati e definendoli “il partito del 27” (senza arrivare a capire che, con uno smart-working in forma stabile, la sua stessa città si potrebbe riempire di tutti gli esuli e migranti messinesi sparpargliati in giro. Ma vabbè).

Il problema però non è il lavoratore, ma il sistema stesso su cui ci si sta basando. Se la tua azienda, sia pubblica che privata, non è in grado di misurare i risultati e l’apporto dei singoli, allora il problema sta nell’azienda, non in chi ci lavora. Non è che se non vedi il lavoratore chino sulla scrivania, allora non sai se sta lavorando. Sembra quando a scuola ti facevi vedere impegnatissimo in classe durante l’interrogazione per non farti chiamare, quando non sapevi una mazza: davvero siamo rimasti a questo? Ci dobbiamo quindi affidare al buon cuore del lavoratore, alla sua onestà, sperando che ci dica bene?

Ed è questo un punto importante: la tecnologia che ci permetta di lavorare in smart-working adesso c’è, ed è alla portata di molti, ma forse è tutto il resto che manca. Perché la mentalità da “il lavoro si fa solo alla scrivania” è dura da abbattere, così come quella trappola della burocrazia che in Italia ancora affonda in un mare di carte, ceralacche, file, sportelli, marche da bollo, come se fossimo ancora ad inizio Novecento (e anche qui abbiamo perso una grande occasione per poter rivoluzionare finalmente questo sistema vecchio come il cucco, insensato e sanguisuga delle nostre ore e della nostra pazienza).

Ci sono i furbetti, direte voi. Chiaro, ma mica lo sono soltanto da casa, no? Un fancazzista resta tale sempre, sia in sede che da remoto. 

Quello che mi colpisce è questo bisogno quasi primordiale di controllo su chi sta sotto, una necessità ricoperta da strati e strati di pratiche e consuetudini, di nuovo linguaggio, di desiderio di competitività – ma quello è: avere il lavoratore sotto l’occhio del padrone. Il potere che esercito su di te, e che si smorza con la distanza. E il lavoratore? Più mi si vede, più sembrerò attivo e produttivo.

Rieccoci tornati a scuola. 

Sembra semplicistico, vero? Certo che lo è. Ma la discussione sullo smart-working, fatta quasi bisbigliando, dove persino lo Stato lo consiglia timidamente senza mai fare il passo successivo, è stata smantellata non su ragioni e numeri, ma perché “così non si fa”. Poco importa se l’obiettivo finale si raggiunge lo stesso: non va bene quindi va tolto, fine

E non è un ragionamento che riguarda solo l’Italia: anche qui in Australia si è cominciata l’operazione di lenta destituzione dell’esperimento di smart-working. E anche qui, come in altre parti del mondo, non tutti sono contenti di tornare alle condizioni di prima. Anzi.

E qui arriviamo al punto che ho volutamente lasciato per ultimo, e che i padroni hanno ignorato quasi ovunque, così come hanno fatto finta di non vedere quanto spesso la produttività sia aumentata con il lavoro da casa.

Il punto meno importante, non per il mercato, non per i bilanci.

Il punto meno discusso.

La felicità dei lavoratori.

Migliaia di persone in tutto il mondo hanno cominciato a lavorare dalla propria casa, e hanno capito non solo che si poteva fare, ma anche che farlo ha spesso migliorato tantissimo la loro qualità di vita.

Hanno eliminato le ore bruciate nel traffico avanti e indietro, dove uno perde la sua umanità ancor prima di cominciare la giornata. Hanno eliminato le spese, i parcheggi a suon di bestemmie, gli incidenti, le tempeste e i ritardi – contribuendo, di sfuggita, alla diminuzione dello smog e del traffico stesso. 

Hanno potuto ritrovare un ritmo più naturale che sembravano aver abolito non appena entrati nell’età adulta, come grande rito di benvenuto per chiunque avesse finito la parte divertente della vita. Hanno potuto godere di ore che sembravano precluse per sempre, senza elemosinare le ultime energie ad una giornata ormai finita, riuscendo perfino a beccare qualche raggio di sole.

Hanno potuto passare più tempo con chi amavano.

E già questo basterebbe per tutto il resto.

Hanno avuto, pur lavorando, più tempo per loro stessi, per dormire, per giocare, per fare l’amore, per parlare e per riflettere.

E già questo basterebbe per capire come mai, ai capi, non va e non andrà mai giù.

Ma questa, per quel che mi riguarda, è una lotta importante nata da un pessimo accidente, e che quasi per caso, senza volerlo, ci ricorda che nella vita è importante il pane, ma lo sono anche le rose

E i lavoratori si meritano entrambe le cose.

Sono finite le grandi lotte, le rivendicazioni sociali. Tutto è stato addomesticato, addormentato

Per questo questo tentativo di restaurazione non deve fermare un dialogo importante, che riguarda tantissimi di noi. 

Vivere meglio è sempre possibile, pure in mezzo a queste tragiche notizie.

Proviamo a non dimenticarcene.

 

Marco Zangari

www.marcozangari.it

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