Inizio con un brano letterario e un aforisma: 

Infine il Bruco si levò di bocca la pipa e, con voce languida e assonnata, chiese: “E tu chi sei?” Questa non era certamente la maniera più incoraggiante per iniziare una conversazione. Alice rispose con voce timida: “Io… io non lo so, per il momento, signore… al massimo potrei dire chi ero quando mi sono alzata stamattina, ma da allora ci sono stati parecchi cambiamenti”. (Lewis Carroll)

Neanche il bruco però è indenne da tale incertezza:

“Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla” (Lao Tse)

La magnifica e toccante testimonianza del Cardinale Franco Montenegro (per molti di noi Padre Franco), offerta in occasione del recente incontro sui migranti (La sfida delle migrazioni. “Per non essere cristiani a metà”) tenutosi all’Auditorium Fasola in una sala gremita di messinesi e non, una volta tanto strappati alla pigrizia e disposti ad affrontare una pioggia scrosciante pur di sentire parole di verità assai rare in tempi tanto bui, ha toccato snodi cruciali dai quali l’intera società civile, che comprende cristiani e laici, è oggi fortemente interpellata e con i quali è chiamata a misurarsi radicalmente, senza mezze misure e ipocrisie, ma con una spirito nuovo, fatto di sogni e utopia (come è giusto che sia) ma al contempo di sguardi lucidi sul presente e di una rinnovata volontà di declinare politiche nuove in grado di fronteggiare la barbarie che, a guisa di metastasi, sta raggiungendo e consumando il tessuto connettivo di un Paese un tempo tollerante e oggi tentato da necrofilie di stampo fascista.

È indubbio motivo di vanto per la nostra città poter annoverare tra le proprie realtà quelle rappresentate dai due promotori dell’incontro, l’Ufficio Migrantes dell’Arcidiocesi, animato come meglio non si potrebbe dal diacono Santino Tornesi, e una piccola comunità come la “Nuovi Orizzonti” sorta intorno al magistero di quel profeta del nostro tempo che è il gesuita Felice Scalia. Ugualmente fruttuoso, per i fortunati presenti, è stato ascoltare gli interventi che si sono succeduti da parte di specialisti come i Proff. Fulvio Vassallo Paleologo e Tonino Perna, introdotti e moderati da Mariella Urzì e dal giornalista Lucio D’Amico.

La serata, allietata dai coinvolgenti canti del coro multietnico di Migrantes, ha lasciato – io credo – in tutti i presenti una forte emozione e una serie di “tarli” che continueranno a lungo a rodere nelle menti e nei cuori. 

Cosa è emerso infatti da questo straordinario momento di riflessione? 

Ancora una volta, il tema cruciale dell’identità. Quell’identità che molti in Occidente, e sempre più numerosi qui da noi, paventano possa essere messa in crisi, annacquata o addirittura cancellata da quelle tante disperate identità che, sempre più numerose e sempre più disperate, affollano il Mediterraneo in cerca di scampo agli orrori lasciati a casa propria. 

Ernesto de Martino (che volete farci, è una mania questa mia) diceva che per poterci aprire alle identità altrui dobbiamo essere bene fondati sulle nostre. Egli si contrapponeva in tal modo al relativismo culturale assai di moda negli anni sessanta, quella concezione che poneva tutte le culture sullo stesso piano e teorizzava che si potesse allegramente trascorrere dall’una all’altra, posto che tutte avevano la medesima dignità e fosse pertanto lecito non abbracciarne alcuna in particolare ma abbeverarsi, a seconda del momento, all’una o all’altra, magari abdicando temporaneamente alla propria.

Il pensiero di de Martino era viceversa alquanto più articolato. Il riconoscimento della pari dignità di ogni cultura, secondo lui, non comportava automaticamente che tutte le culture fossero uguali. Esse avevano avuto una storia diversa, ed era pertanto vano, e oltremodo velleitario, pensare che il passaggio dall’una all’altra potesse avvenire in modo indolore, proprio perché ognuno di noi si porta appresso la propria storia individuale e la storia della “civiltà” che nel proprio angolo di mondo le generazioni hanno faticosamente costruito. Quello demartiniano non era però il cieco arroccarsi e permanere entro il cono d’ombra della propria cultura, il suo era un etnocentrismo critico, assai attento ai guasti e alle tare della cultura di appartenenza e disposto all’apertura verso le altre visioni del mondo a condizione, appunto, che tali aperture non si traducessero in una deriva culturale, in un cieco abdicare alle proprie radici per abbracciare acriticamente quelle maturate in contesti storico-sociali assai distanti dal proprio.

Perché faccio queste considerazioni? Perché mi pare che al giorno d’oggi sia sorto un grosso equivoco rispetto alle forme d’identità che ognuno di noi è chiamato a esibire nella vita quotidiana e, più in generale, nel corso dell’esistenza. 

Mettiamola così. Ci sono identità “genuine” e identità “spurie”. Quelle genuine non sono certo quelle esibite dai leghisti e da coloro che parlano di “identità forti”. Sotto questo profilo dire Padania e dire Messinesità si equivalgono, in quanto in entrambi i casi si spacciano per realtà identitarie ideologie o velleità costruite a tavolino, dai caratteri immutabili e impermeabili alle “contaminazioni” esterne.

L’identità genuina è fluida, composita, stratificata, contaminata, sempre aperta e disponibile ad arricchirsi con ciò che la storia va ad aggiungere alla sua natura. Essa è tanto rispettosa delle alterità, ossia delle forme d’identità lontane dalla propria, quanto aperta ai meccanismi di naturale scambio e travaso di elementi identitari che sempre insorgono allorquando due culture vengono in contatto tra loro e nessuna di esse cerca di prevaricare, soffocare, inglobare o acculturare l’altra.

Se dunque l’Occidente, il ricco, opulento ed egoista Occidente, ha paura di accettare il confronto con le identità aliene che vengono a visitarlo sperando di trovare in esso una nuova patria, un nuovo ancoraggio territoriale e di memorie, ciò dipende in maniera evidente dal fatto che questo Occidente ha smarrito la propria identità. Questa identità se l’era costruita, assai faticosamente come sempre avviene, attraverso una storia multimillenaria cui hanno messo mano i filosofi greci, la democrazia della polis, il diritto romano, la straordinaria Buona Novella di Gesù, la cultura bizantina, i monaci medievali, gli umanisti e la Rinascenza, l’Illuminismo e l’Encyclopédie, i romantici ed Hegel, Marx e il Socialismo, e tutto ciò che ha concorso, attraverso una serie interminabile di “accoglimenti” ed espunzioni, di lacerazioni e sincretismi, a formare lo spirito della civiltà europea. Un fare e disfare, insomma, che ha prodotto certezze come quelle espresse da Immanuel Kant (Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me) e da Voltaire (Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa esprimerle), per non parlare delle verità già reseci palesi duemila anni or sono da un giovanotto della Galilea dalla vita breve. Il riconoscimento, infine, della pari dignità di ogni essere umano e la consapevolezza che questa nostra stirpe di uomini e donne naviga lungo le acque procellose dell’esistenza stando tutti nel medesimo barcone, per cui la morte di uno è la morte di tutti, la salvezza di uno è la salvezza di tutti. Nessun uomo è un’isola, ce lo ricordava già cinquecento anni fa quello straordinario poeta teologo di John Donne.

Se così è, ci ha testimoniato Padre Franco, la campana suona sempre per noi. Ogni respingimento, ogni morte di questi nostri simili speciali che sono i migranti, ma anche ogni nostro girarci dall’altra parte per non scorgere gli orrori, ogni nostra indifferenza o acquiescenza alla barbarie, portano un notevole carico d’acqua al mulino dei barbari, quello che quotidianamente, dai social o dai media, vomitando la sua acqua putrida ci invita alla paura e all’odio. 

Caro Padre Franco, in quest’angolo di mondo che chiamiamo Occidente (l’Occidente Eurocolto, come lo chiamava de Martino) le identità cattive hanno preso il sopravvento su quelle buone. Denaro, finanza, profitto, sfruttamento, colonialismo, razzismi, fascismi costituiscono il tragico cupio dissolvi di quanto di meglio ha costruito la cultura occidentale e hanno concorso a ridurci gretti e impauriti. Sostanzialmente ciechi rispetto alle meraviglie, alle potenzialità di un pianeta pacificato, privo di conflitti e di muri, privo di cupidigia e di crudeltà.

Ancora una volta, l’unico ad averne consapevolezza è quel pastore che odora di pecore che sta a Roma.  

 

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