Risposta a Nino Principato, di Dario Brancato

 

La civile e articolata risposta di Nino Principato al mio contributo del 5 marzo sulla presunta messinesità di William Shakespeare è un segno di quanto questo tema stia a cuore alla cittadinanza di Messina, e allo stesso tempo mi dà l’opportunità di ritornare sull’argomento.

Dario Brancato

L’articolo di Principato si divide in tre parti: nella prima, è riassunta la teoria di Iuvara, con l’aggiunta qualche dettaglio supplementare su Michelangelo Florio; nella seconda, si presentano una serie di argomentazioni utilizzate dagli anti-stratfordiani, e nella terza si adducono le prove che, a detta di Principato, farebbero di Shakespeare un cittadino messinese. Sorvolo sui primi due punti, confermando quanto avevo scritto due settimane fa e limitandomi a una manciata di osservazioni. Non nego recisamente l’esistenza di un Michelangelo Florio figlio di Guglielma Crollalanza nato a Messina nel 1564, ma il fatto che questi possa essere Shakespeare solo sull’analogia dei cognomi (che già esisteva in Inghilterra prima del Bardo), non mi pare un elemento probante (al massimo è una coincidenza), come pure non depone a favore di questa ipotesi il fatto che a 28 anni Florio si fosse potuto impadronire perfettamente della lingua inglese senza lasciare tracce della sua madrelingua siciliana. E non mi riferisco  a prestiti di parole siciliane, del tutto assenti, o al limite italiane (una trentina), ma a interferenze di natura sintattica, frasi cioè costruite con un ordine di parole tipico del siciliano (o dell’italiano) e non dell’inglese, retaggio che chi apprende una lingua straniera da adulto sa quanto sia difficile perdere.

Sulle argomentazioni degli anti-stratfordiani (la seconda parte della risposta di Principato), vorrei solo precisare che i registri della grammar school di Stratford sono andati perduti, il che è altra cosa che scrivere che «non compare il nome di nessun William Shakespeare», frase che vuol dire: i registri esistono, ma non vi si trova il nome del Bardo. Sul resto, per ragioni di brevità, rimando alla voce di Wikipedia sulla questione, aggiungendo che, come da un lato non va sottovalutata l’estrazione sociale della famiglia Shakespeare (il padre di William, John, aveva ottenuto nel 1596 il diritto a fregiarsi di uno stemma), dall’altro non va sopravvalutata la conoscenza di nozioni classiche del Bardo, senza dubbio fenomenale, ma che poteva aver acquisito anche attraverso florilegi e traduzioni inglesi.

Vengo adesso alle quattro motivazioni che, secondo Principato, aggiungerebbero legna al fuoco sulla probabile origine messinese di Shakespeare.

La prima è l’ambientazione messinese di Molto rumore per nulla. Il fatto che un’opera sia ambientata a Messina (o nell’antica Roma) non serve, da solo, a dimostrare che l’autore sia un Messinese (o un antico Romano): la situazione sarebbe diversa se nella commedia trovassimo riferimenti specifici a Messina (il nome di una strada, di una piazza, ecc.) o alla sua popolazione che solo un messinese di quel tempo poteva conoscere.

Questo mi porta al secondo punto di Principato, cioè che Shakespeare sarebbe messinese perché sapeva che nel 36 a.C. Pompeo aveva soggiornato nella Città dello Stretto. Anche su questo mi permetto di avanzare qualche perplessità, perché questa prova dimostrerebbe al massimo una buona conoscenza dei classici da parte di Shakespeare (fra parentesi, la fonte di Antonio e Cleopatra sono le Vite di Plutarco, che erano disponibili nella traduzione inglese di Thomas North), cioè è un’informazione che avrebbero potuto conoscere tutti coloro i quali avessero un minimo di dimestichezza con la storia romana.

Le ultime due motivazioni sono di carattere linguistico e ci riportano a Molto rumore per nulla, in particolare a due modi di dire tipicamente messinesi nascosti nella commedia.

 

 

Per quanto riguarda il primo (“avi a nasca addritta”, ‘ha il naso tirato in alto, all’insù’, per indicare una persona superba), devo dire che, anche ammettendo la proposta di Principato, che pur non manca di suggestività, la battuta di Don Pedro continua a non funzionare (e peraltro perché scrivere «con la faccia» e non «con il naso»?). Per comprendere pienamente il senso della frase mi sembra più affidabile la spiegazione correntemente accettata degli studiosi, fra cui F. H. Mares, curatore nel 2003 del Much Ado about Nothing, per la collana «The New Cambridge Shakespeare» della Cambridge University Press. Bisogna innanzitutto tenere conto che la scena (Atto III, Secna II) è piena di doppi sensi che partono dagli effetti delle pene d’amore, sia spirituali che fisici. La frase «She shall be buried with her face upwards» («La seppelliranno con il viso in su», nella traduzione di Masolino D’Amico citata da Principato), quindi, si capisce solo in relazione con quella che la precede, di Claudio («Sì, invece, e conosce tutti i suoi difetti; e nonostante tutto si strugge per lui», nell’originale «Yes, and his ill conditions, and in despite of all, dies for him», nella quale il verbo inglese “to die” ha tanto il significato di ‘morire’, quanto quello di ‘avere un orgasmo’. Il doppio senso, quindi, continua nel verso successivo, nella quale il verbo “to bury” può riferirsi alla terra o, maliziosamente, al corpo di Benedetto.

L’altra espressione messinese si troverebbe nell’Atto IV, Scena I: dietro il furibondo «I would eat his heart» di Beatrice si celerebbe il “ti manciria ’u cori” (‘ti mangerei il cuore’). Ora, anche questo caso mi pare al massimo una semplice coincidenza, tanto più che, senza dover scomodare gli antichi (Aristofane, per esempio), “mangiare il cuore” si trova per ben due volte in un analogo contesto (è una donna a parlare) nella commedia Gli intrichi d’amore (1598) di Torquato Tasso, che certamente non era messinese: «Sciocche noi, ch’avemo fiducia in serve che sempre incostanti, sempre infideli sono! Ma perché io non mi vendico con le proprie mani? Ladra, traditora a questo modo! Ah! ti tirarò questi capelli, mi ti mangiarò il cuore!». E: «Io lo starò qui fuori aspettando: non voglio che né anco salisca in casa, voglio discacciarlo, me ne voglio mangiare il cuore. Infame, che mai fosti figlio di Alessandro! traditore, che meriti ogni castigo!».

Anche al sottoscritto piacerebbe poter affermare con la stessa convinzione di Principato, che ringrazio ancora per la stimolante risposta, di essere un concittadino del Bardo, ma mi piacerebbe poterlo fare non con un argumentum ex silentio (una ipotesi, cioè, basata sull’assenza di dati concreti), ma con prove schiaccianti, in grado cioè di convincere anche le persone più scettiche come me. Nel frattempo, Shakespeare rimarrà nelle brume del Warwickshire, dove vivo anch’io, e continuerà a commuovermi per la sua poesia. Anche se non era buddace.

Dario Brancato

 

 

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