Lei licenziata con un messaggio su whatsapp. Lui in cerca di lavoro da mesi, dopo essersi trasferito a Messina per stare vicino alla sua compagna. Costretti a cambiare casa per una parola non mantenuta. Costretti a chiedere il reddito di cittadinanza per poter tirare a campare. E’ la storia di una coppia di ragazzi, non ancora trentenni, che senza le famiglie alle spalle tentano di farsi una vita, di trovare una strada, di creare una loro famiglia, ma che sul loro camminano trovano solo muri: è la loro storia, ma potrebbe essere quella di chiunque, nella loro età e nelle loro condizioni, a Messina. A LetteraEmme, ma anche alle altre testate giornalistiche a Messina, ne arrivano a decine, ogni settimana.

E quindi perché questa storia ha più dignità delle altre? Perché questa è stata presa in considerazione e le altre no? Qui entra in gioco la sensibilità soggettiva. Un giornale, soprattutto oggi, non può fare altro che prendere atto, valutare, “segnare” e accantonare. Accantonare, in attesa che una segnalazione, due, dieci, cento, diventino una statistica. La città in cui la fascia salariale maggiore è quella da diecimila euro all’anno, ottocento euro al mese. La città con la crescita più bassa. La città del disagio abitativo. Delle quarantamila persone che usufruiscono del reddito di cittadinanza. La città dalla quale chi può, se può, scappa.

E quindi perché la storia di due ragazzi è più significativa di tante altre? Perché li ho incontrati di persona. Li ho conosciuti. Ho parlato con loro, più volte. Ho visto, nei loro occhi e nelle loro parole, la mortificazione del dover ricorrere ad un aiuto da parte dello stato, col reddito di cittadinanza. “Non abbiamo nemmeno trent’anni, abbiamo voglia di lavorare, faremmo qualsiasi cosa, e invece dobbiamo accontentarci di un’elemosina governativa che ci mortifica come persone”, mi hanno spiegato una decina di volte. “Noi vogliamo guadagnarci da vivere, non vogliamo campare alle spalle di altri”, hanno sottolineato. Più volte, lo hanno sottolineato.

E allora ti viene da domandarti cosa ha da offrire, a loro, una città come Messina. Cosa ha da offrire a una ragazza e un ragazzo che hanno deciso di formare una famiglia, che hanno ritenuto non fosse nell’ordine naturale delle cose restare a casa fino alla mezza età, hanno ritenuto (lui) di trasferisi per restare accanto alla persona che ama e viverci insieme. Di condividere una quotidianeità che, oggi, è un lento stillicidio di porte che si chiudono. O che non sono mai state aperte.

A luglio una lettera al sindaco, più per sfogo che per reale speranza che i loro problemi potessero essere risolti, perché un’amministrazione comunale non ha (e non dovrebbe avere) potere di “trovare un posto di lavoro. Il miraggio che arriva con i bandi per i lavoratori temporanei di MessinaServizi e per i cantieri lavoro. “E nonostante le condizioni in cui siamo costretti a vivere, anzi, a sopravvivere, per i requisiti richiesti dal bando non abbiamo abbastanza sfighe, come familiari invalidi a carico o cose simili”. Perchè anche nella sfortuna bisogna essere fortunati, e se non lo sei le porte delle graduatorie sociali restano sbarrate.

E sì che lei un’invalidità ce l’ha. Un intervento alla schiena, che ha rischiato di lasciarla sulla sedia a rotelle per il resto della vita, dalle commissioni è stato valutato come guaribile con un po’ di fisioterapia. “Non riesco più ad alzare pesi gravosi, cammino in preda al dolore, sono limitata nei movimenti. Non posso fare la commessa, né la cameriera, come ho fatto in passato, e come continuerei a fare se mi fosse dato un aiuto con i compiti più duri, ma niente, sono un invalida per i potenziali datori di lavoro, ma non davanti alla legge”.

Forse non vi è chiaro l’imbarazzo che si prova quando chi hai davanti ti spiega che si è ridotto a mangiare una volta al giorno perché materialmente non può permettersi due pasti e arrivare a fine mese, tra affitto, bollette e spesa. E’ moralmente sbagliato.

E ti trovi a domandarti com’è che in una città di una delle otto nazioni più industrializzate del mondo sia possibile una cosa del genere. Sia possibile arrivare al punto di sfogarsi col primo cittadino, scrivendogli frasi del tipo “Non sono una ragazza che gode di ottima salute, ma neanche di molta fortuna.  Sono stata operata alla schiena ad aprile 2018 poiché rischiavo la paralisi, dopo l’intervento è stato difficile trovare un lavoro, ma a marzo 2019 ero contenta poiché finalmente avevo trovato un lavoro che potevo fare!  La segretaria. Mi sono impegnata al massimo, anche perché il lavoro mi era stato trovato da un caro amico, quasi quattro mesi (di lavoro in nero! Avevo chiesto il contratto, ma da marzo mi fu dato soltanto il 19 giugno e capii che quel pezzo di carta non valeva niente). Successivamente dal 25 giugno fino al 3 luglio non c’era luce in ufficio e quindi non potevo lavorare. Il 3 luglio il titolare mi licenziò tramite messaggi, senza un preavviso e senza un valido motivo”.

Che città è quella che permette questo? Che città è quella che divora il futuro dei suoi figli, costringendoli a un’elemosina di stato? Che città è quella che ha rubato la possibilità di un futuro a chiunque voglia farsi una vita, una famiglia, e non abbia santi in paradiso?

Una città che premia la mediocrità e mortifica il merito, una città in cui le frequentazioni sono più importanti del curriculum e il cognome che porti determinerà il tuo ruolo nella società. Col risultato che si sta creando una generazione, troppo vecchia per essere giovane, ma non abbastanza vecchia da essere considerata tale, che naviga in mezzo ai gorghi, in un eterno conflitto generazionale che ha visto svilupparsi un senso di disillusione e fallimento nel prendere coscienza del fatto di aver ottenuto dalla vita, prima generazione nella storia del mondo eccetto forse quelle gravate dalle guerre, dalle calamità e dalle carestie, meno di quanto raggiunto dai genitori.

Addossandosene le colpe. Vivendo con un’ombra di incompiutezza addosso. Considerando se stessi come responsabili del proprio fallimento, un inestirpabile peccato originale. Svegliandosi la mattina con l’unico pensiero in mente di contare quanto manca prima di andare di nuovo a dormire. Una generazione col veleno dentro. E una città che sta a guardare.

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