MESSINA. Riceviamo e pubblichiamo un contributo della ricercatrice Giuliana Sanò, antropologa del gruppo di ricerca “Cartografare” del dipartimento Cospecs dell’università di Messina, in merito al progetto “Nido famiglia: Mamme di giorno”, presentato dall’Amministrazione comunale lo scorso 31 gennaio (qui i dettagli e cosa prevede).

Di seguito il testo integrale:

Negli ultimi tempi la questione della disoccupazione femminile ha assunto una posizione relativamente centrale all’interno delle agende politiche di tutto il mondo. Del divario tra i livelli di occupazione di donne e uomini si continua a parlare molto, e male. Gli interventi nazionali previsti in materia di “pari opportunità” (locuzione che di per sé chiarifica le strutturali disuguaglianze di genere senza, tuttavia, smontarle) e di inserimento lavorativo delle donne non sono quasi mai soddisfacenti e nella maggior parte dei casi si prefiggono obiettivi che dimostrano la totale incapacità dei governi nel saper leggere, tradurre e coniugare concretamente le trasformazioni del mercato del lavoro e i bisogni della “classe delle donne”.

In tal senso, basterebbe pensare a campagne come il “Fertility day” per rendersi conto di come nel nostro Paese la maternità venga ancora inquadrata come una questione squisitamente biologica senza tenere conto del fatto che la scelta di diventare madre – insieme al desiderio e alla consapevolezza che tale scelta evidentemente richiede, possa essere al contempo profondamente condizionata dall’ambiente socio-economico in cui nasce e prende forma. Banalmente, per diventare madre non è sufficiente che uno o più organi riproduttivi funzionino, bensì che tutto ciò che vi sta intorno – le antropologhe e gli antropologi lo chiamerebbero “cultura” – funzioni. Sarebbe a dirsi, che per diventare madri o genitori, al di là delle tecniche riproduttive di cui fortunatamente al giorno d’oggi disponiamo, sono altresì necessarie condizioni economicamente e socialmente favorevoli.

Non è affatto mia intenzione fare di questa premessa la base per un’argomentazione che possa, anche solo implicitamente, risuonare come un suggerimento: “i figli può farli solo chi può permetterseli”; al contrario, ciò che si intende qui affermare è che la genitorialità non è mai solo una questione “di natura”, e che continuare a parlare di denatalità nei termini in cui lo fa la politica è in realtà una strategia per nascondere sotto il tappeto “il dramma sociale” della disoccupazione e, in particolare, di quella femminile. Ma non solo.

Seppur brevemente e senza gli adeguati appigli teorici, il mio intento è quello di provare a ragionare intorno a convinzioni e convenzioni sociali che sembrerebbe facciano molta fatica a scomparire. Per farlo, mi servirò del progetto previsto e bandito dal Comune di Messina “Mamme di giorno”, la cui articolazione fa evidentemente a pugni con l’ambizione dell’amministrazione locale di riuscire a prendere i cosiddetti “due piccioni con una fava”, di colmare cioè, l’assenza di asili nido e contestualmente di risolvere il problema della grave disoccupazione femminile nella nostra città. Ambizione dichiarata dalla presidente della Messina Social City, secondo la quale questo progetto: “Vuole essere un modo per ampliare i posti, perché parliamo di 400 bambini, ma anche un’opportunità per le donne che non sono inserite all’interno del mondo lavorativo per farlo 80 mamme potranno aprire il nido in famiglia mettendo a disposizione la propria abitazione”.

Mamme di giorno è, quindi, un progetto che invita donne “maggiorenni e Mamme, o in possesso del diploma di scuola media superiore e che hanno seguito un percorso formativo specifico di tipo pedagogico o socio-educativo e/o hanno realizzato un’esperienza lavorativa pregressa o tirocinio presso servizi educativi o provviste di titolo di laurea in scienze dell’educazione ed equipollenti” a farsi avanti per la selezione di 80 posti di lavoro come donne/mamme alle quali verranno assegnati 5 bambini cadauna, in una fascia di età compresa tra i 3 e i 36 mesi, dei quali dovranno prendersi cura, ospitandoli in casa propria o in una struttura adeguata.

Come hanno evidenziato le promotrici del progetto, e in maniera particolare l’assessora alle politiche sociali, questo esperimento prende le mosse dal modello educativo nord europeo “Tagesmutter” (letteralmente mamme di giorno), già largamente riprodotto in altri contesti italiani e che aspira a fare della società – in larga, media e piccola scala – un contesto educante o, meglio, di educazione integrata.

Senza scendere nei particolari della pedagogia del Tagesmutter (potete trovarli qui), occorre, però, ribadire che l’idea che ha accompagnato la creazione di questi nidi familiari non nasce dall’esigenza di colmare l’assenza di strutture comunali o, peggio, di risolvere la disoccupazione femminile, ma semmai dal bisogno di promuovere un modello educativo diverso da quello tradizionale. La differenza, quindi, non è da poco. Così come non sono da ritenersi di poco conto gli esiti e le conseguenze della traduzione in salsa messinese di un progetto che nel suo atto costitutivo ambiva a raggiungere finalità differenti – l’educazione integrata e la socializzazione dei bambini e delle bambine alla diversità sin dalla primissima infanzia– e che si è sempre distinto per il reclutamento di figure professionali adeguatamente formate e preparate all’assolvimento di un incarico così importante, come può essere l’educazione dei bambini e delle bambine.

Non è un caso che l’APEI (associazione pedagogisti e educatori italiani) abbia espresso formalmente serie preoccupazioni, entrando nel merito dei requisiti indicati nell’avviso per la partecipazione al bando del Comune di Messina e sottolineando come l’essere mamme o possedere un diploma non siano requisiti sufficientemente validi per un’attività che, al contrario, richiede impegno, preparazione e formazione costante. Ma le criticità non finiscono qui.

In primo luogo (e per questa dritta devo ringraziare un’amica che me lo ha fatto notare) esiste un problema di “stereotipizzazione” dei generi nei luoghi di lavoro. Chi avesse voglia di documentarsi sull’esistenza e sul funzionamento di questi progetti, resterà probabilmente sorpreso dall’assenza di un requisito che nel nostro caso, invece, risulta essere fondamentale per accedere alla selezione, cioè a dire: essere donna. Per i più scettici, si dà qui notizia dell’esistenza di un equivalente modello tutto al maschile, il Tagesvater (padri di giorno). Per questa ragione, nelle spiegazioni dei progetti già avviati si fa sempre riferimento a “figure professionali” o a “persone”, senza mai specificarne il genere. E questo, banalmente, perché in quasi tutti i contesti educativi “più avanzati” l’idea che a prendersi cura dei bambini e delle bambine debba necessariamente essere una donna è per nostra fortuna tramontata.

Ancorché complicate e difficili da intravedere, le questioni che siffatta convenzione sociale pone in essere coincidono perfettamente con quanto abbiamo esposto all’inizio di questa riflessione, ovverosia con le distorsioni che molto spesso scaturiscono dall’incapacità di programmare politiche occupazionali e di genere al passo coi tempi ma, soprattutto, con i desiderata e con le esigenze delle donne.

A scanso di equivoci, tengo a ribadire che chi scrive è una sostenitrice del lavoro riproduttivo salariato, cioè a dire della necessità di riconoscere fattivamente e per mezzo del salario l’attività delle donne che lavorano in casa. Tuttavia, la posta messa in gioco dal progetto Mamme di giorno risulta profondamente diversa dal principio di riconoscimento che animava le lotte di quelle femministe della seconda ondata, le quali hanno combattuto affinché il lavoro riproduttivo venisse, con buona pace di Marx, remunerato.

Non si tratta, quindi, di svalutare il lavoro delle mamme o delle donne che lavorano in casa, ma semmai di valutare se sia giusto oppure no che un’amministrazione pensi di risolvere il problema della disoccupazione femminile e, diciamolo pure, delle disuguaglianze sociali e di genere, promuovendo un progetto che insiste sulla “naturalizzazione” del ruolo di mamma, sulla “stereotipizzazione” dei generi nei luoghi di lavoro, sull’ “inclusione” e la messa al lavoro delle donne unicamente nei settori del lavoro domestico e della cura, sulla “distinzione” sociale ed economica tra mamme che lavorano fuori casa e mamme che accudiscono i figli di quelle, ma soprattutto che prevede una remunerazione del lavoro svolto per mezzo di voucher.

A fronte di tutte queste criticità, è necessario chiarire che per risolvere in maniera seria ed efficace il problema della disoccupazione femminile e l’assenza di strutture pubbliche per i bisogni dei genitori che lavorano non basta mutuare il nome di un progetto europeo tra i più avanzati, giacché un’operazione di tal genere denota non soltanto una grandissima approssimazione, espressa dai requisiti e dall’assenza di un progetto educativo fondato, ma  altresì una profonda incapacità nel saper leggere le coordinate della città che si amministra. Lo abbiamo detto in più occasioni facendo riferimento ad altri roboanti progetti: Messina non è la Scandinavia né tantomeno il Trentino Alto Adige, ossia territori nei quali questi modelli educativi trovano un riscontro soprattutto dal punto di vista sociale ed educativo, e non certamente occupazionale. Problemi come quelli della disoccupazione femminile o dell’assenza di strutture dedicate alle donne o ai più piccoli vanno affrontati misurandosi con le esigenze e con le richieste del territorio, non certo scopiazzando malamente da chi, ingenuamente e in maniera un po’ provinciale, si ritiene possa sempre e in tutti i casi rappresentare il meglio.

 

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