Libri contro vigili, cultura contro polizia, legalismi contro irregolarità. Si potrebbe riassumere in questi termini la nota “contesa sui libri” di Piazza del Popolo che, ormai da due settimane, vede contrapposti da un lato la comunità dei lettori del Circolo Pickwick, i venditori di testi di seconda mano, alcuni semplici cittadini e, dall’altro, il sindaco e i vigili urbani. Non si sbaglierebbe a farlo, ma sarebbe riduttivo. La contesa, infatti, implica molte altre questioni.
Quella relativa allo spazio, innanzitutto. Piazza del Popolo (o Piazza Lo Sardo, per i puristi della toponomastica) è da tempo uno “spazio conteso”, al centro di preoccupazioni legalitarie, di aspirazioni relative a ciò che questa piazza potrebbe essere e non è, e persino di proiezioni razziste o classiste. Piazza del Popolo è infatti uno spazio vivo e denso di relazioni che, però, viene dipinto come “morto”, terra di nessuno, sottoutilizzato. Quando è, invece, uno spazio che pullula di vita. Di una vita, tuttavia, giudicata inadeguata: fatta di stranieri, di poveri, di bambini “oriundi” che giocano a calcio e di genitori dal basso reddito che la impiegano come palestra e parco urbano per la loro prole.
Piazza del Popolo è anche luogo di bevute a basso costo, di panchine che si sostituiscono ai dehors e, occasionalmente, di ubriacature e risse sanguinarie. Piazza del Popolo, insomma, è uno spazio pubblico e centrale, che, proprio per questo, ricolloca la “complessità rimossa” del sociale al centro dello sguardo. La complessità rimossa, infatti, è quella delle persone e delle famiglie dal reddito basso, impossibilitate al consumo cospicuo (poco importa che si tratti di scuole calcio per i bambini oppure di alcolici), in cerca di un terreno dove trascorrere il tempo e incontrare propri simili. Questa piazza, insomma, rende evidente che Messina, come ogni altra città, non è il terreno di vita delle sole classi medie, più o meno agiate; ma è uno spazio plurale, in cui convivono povertà, abiezione e bisogni sociali diversificati.
Piazza del Popolo, in altri termini, è una piazza in cui a essere messi in mostra sono soprattutto le esigenze dei cittadini comuni. Anzi di quelli meno che comuni. Di coloro, cioè, che non sanno scrivere lettere ai giornali, che non sono rappresentati in Consiglio comunale, che non sanno organizzarsi in associazioni e e in gruppi di pressione, che non sono piccoli commercianti, e che vivono una precarietà esistenziale che non lascia molto altro svago che abbandonarsi su una panchina.
Ma accanto a questi bisogni, Piazza del Popolo ne mette in mostra molti altri. Anzi, proprio perché è uno spazio autenticamente pubblico e plurale, mette in mostra le interconnessioni. Ossia quelle esigenze che connettono classi medie e classi inferiori, bisogni personali e bene pubblico. Il bisogno di libri, per esempio. Insieme a quello di non accumularli, di sbarazzarsene, di sostituirli con altri mai letti. E, insieme, l’esigenza speculare di raccoglierli, catalogarli e rimetterli in circolazione.
Insomma la domenica mattina, quando la piazza pullula di ortaggi invece che di feste o partite spontanee di strada, la classe media dei lettori incontra quella dei venditori organizzati dal Circolo Pickwick. Lo spazio laterale della Piazza diventa così il luogo in cui bisogni forse minori, ma forti e senza rappresentanza, si incontrano e si soddisfano reciprocamente.
La giunta comunale ha interpretato questa presenza nei termini di un conflitto per la legalità. Forse addirittura una guerra. Se il conto è corretto, la seconda puntata di questo nuovo conflitto urbano settimanale, tenutosi appena la scorsa domenica, ha infatti impiegato per una intera mattinata sedici uomini e donne delle forze dell’ordine (polizia, carabinieri e vigili urbani). Un dispiegamento degno di migliore causa, si potrebbe osservare. Ma non è il caso di essere benaltristi e faremmo perciò meglio annotare che un simile impiego di forze tradisce una visione del governo urbano nei termini improduttivi e socialmente costosi del conflitto, anziché in quelli del “territorio come testo” in grado di svelare i bisogni occultati. Inclusi quelli “minori”. Dunque non soltanto i grandi problemi sociali (la mancanza di case, l’abbandono scolastico, i bisogni speciali etc.) ma quelli legati al quotidiano.
Un po’ come accade a Bordonaro, dove i cittadini si ostinano a costruire un gazebo attorno a delle panchine, che viene regolarmente smontato dalle autorità cittadine invocando la “guerra”. Invece di pensare, più produttivamente, che i cittadini del quartiere stanno lanciando un messaggio e che reclamano uno spazio protetto all’aperto. Uno spazio a cui il dirigismo verticistico evidentemente non ha pensato e al cui bisogno provvede creativamente la popolazione.
Continuando a parlare di bisogni sociali, uno di questi consiste nella produzioni di riti. Non credo sia esagerato affermare che per molte persone la visita ai mercati sia una sorta di rito laico. E il mercato di Piazza del Popolo non dovrebbe costituire un’eccezione. Andare al mercato è molto più che recarsi a svolgere una incombenza domestica che consiste nell’approvvigionarsi di cibo. È anche una ragione per uscire, incontrare conoscenti, discutere di questioni personali e di politica. Il mercato inteso come luogo pubblico è uno spazio pubblico da sempre. La favolosa agorà dei greci – al centro del processo democratico, secondo una vulgata non del tutto corretta ma neanche falsa – includeva certamente i mercati.
Bene, in uno spazio generalmente “democratico” come il mercato di Piazza del Popolo, l’epicentro di tale processo è costituito dalle bancarelle di libri. L’impressione, infatti, è che si parli meglio dinanzi a dei libri che a delle banane. Inoltre chi frequenta le rivendite di libri usati sa che molte delle persone che vi si recano ogni domenica non lo fanno per acquistare ortaggi, ma per guardare i testi esposti. I libri, insomma, sono ciò che li motiva a uscire. Per altri, invece, la visita a queste bancarelle è obbligatoria tanto quanto quella al verduraio di fiducia. In ogni caso, ciò che regolarmente si vede nello spazio dei librai è il formarsi di piccoli capannelli di persone che discutono di politica locale così di massimi sistemi; di sconosciuti che sbirciano i libri dell’altro e che talvolta si riconoscono come membri dispersi di una tribù culturale perché ugualmente interessati agli stessi titoli; di collezionisti di volumi dai soggetti assurdi e di venditori che danno informazioni. Ciò che se ne trae – e non è che via sia bisogno di un genio per farlo – è che le bancarelle di libri sono uno spazio che mette a nudo il bisogno e la possibilità di interagire, alla pari e senza pressioni dettate dal tempo o dalla spinta a consumare.
Ma le esigenze sociali minori sono molteplici e interconnesse, come abbiamo detto. Per esempio è l’insufficienza dello spazio domestico a contenere i libri che connette le case dei cittadini alla piazza. L’esigenza di ricavare spazio nelle abitazioni è ciò che rende indispensabili i venditori di libri di seconda mano. A molte persone, infatti, spiace enormemente mandare i libri al macero. Per quanto, come raccontano le statistiche, siamo un paese di non-lettori, è evidentemente ancora diffuso un sentimento che associa ai libri un sentimento sacrale. È lo stesso sentimento, del resto, che il primo giorno del conflitto tra librai e autorità deve avere generato un moto di rivolta spontaneo alla vista di quel commissario dei vigili che gettava alcuni libri per terra. Ciò che si comprende, dunque, è che i venditori di libri di seconda mano sono utili, tanto perché risolvono un problema pratico (liberare lo spazio di casa) quanto “spirituale” (risolvono, cioè, il dilemma morale di alcuni).
Ma le forme dell’utilità materiale e morale, per usare due termini altisonanti, non si esaurisce qui. Se è vero che siamo un paese di non-lettori, è vero che molti leggono. Non solo: hanno un gran bisogno di farlo. Per esigenze conoscitive, per mettersi in pari con un bisogno di istruzione negato negli anni della giovinezza, per mantenere in allenamento la mente, per non pensare ai propri guai etc. Questo bisogno morale si scontra spesso con i limiti materiali; ossia con una ridotta capacità di spesa, in un quadro, per giunta, in cui libri hanno costi spesso rilevanti (diciamo, in media, quasi mai inferiori ai 12 euro per volume; senza che vi siano veri limiti. L’edizione rigida di un mio libro, per esempio, è attualmente disponibile sul sito dell’editore Palgrave a 77 euro; quella morbida a 52 e quella elettronica a 42). Se ne deduce che già da questo banalissimo punto di vista, le bancarelle permettono al pubblico di lettori di un paese di non-lettori, peraltro in via di impoverimento, con pochi soldi a disposizione per beni voluttuari, con enormi problemi di invecchiamento e con l’esigenza di contrastare demenze, depressione etc. di continuare a leggere a prezzi simbolici. Ricordiamo infatti che il “prezzo” di un libro a Piazza del Popolo è di euro 1 (e se in tasca si ha 70 centesimi, non fa niente; ci se lo aggiudica ugualmente).
Ancora sull’utilità. I venditori di libri e il Circolo Pickwick sono amici dei defunti dalle librerie ampie, dei loro eredi e dei lettori colti. Gli (indegni?) eredi di professori universitari e di professionisti delle scienze umane applicate, come psicologi, psichiatri e borghesi eruditi, avrebbero serie difficoltà a sbarazzare le case dei loro avi senza quei venditori che risolvessero il loro conflitto interiore relativo al gettare volumi a cui non sono minimamente interessanti, ma di cui comprendono il valore culturale. Edizioni introvabili di saggi classici mai ristampati, preziosi volumi d’epoca e via dicendo con un vasto campionario di oggetti librari, il cui valore non è tanto economico quanto culturale. I venditori di libri sono, dunque, coloro che garantiscono la reperibilità di beni culturali preziosissimi il cui costo, nei siti librari specializzati, è spesso semplicemente esagerato e si configura come speculazione.
Questo articolo è già lungo e limito dunque le osservazioni. Dirò solo che di fronte a questi vantaggi, gli svantaggi posti dai venditori di Piazza del Popolo sono minimi. Limitati essenzialmente a un’aiuola collocata di fatto fuori dallo spazio del mercato biologico. Senza che vi siano problemi di sicurezza pedonale e percorribilità dei luoghi. Non vengono impiegate strutture stabili o ingombranti; non risulta che all’attività siano connessi problemi di pulizia, igiene od odori. È, cioè, un’attività dai rischi sociali pari allo zero.
Inoltre è un’attività di rigatteria, a cui non sono connessi obblighi fiscali particolari. E che, come si deduce dal costo irrisorio dei volumi, non genera significativi profitti. La tesi del Circolo Pickwick, che raccorda gli espositori di libri e che li mette in connessione con i donatori, è che la ricompensa di un euro è il giusto riconoscimento di un’attività di messa a disposizione del materiale librario che comporta del lavoro fisico e delle spese. Per esempio quelli relativi a prelevare i libri a domicilio, conservarli, esporli al mercato etc. Tutto questo è per l’appunto un lavoro e un costo, che vengono compensati con un “prezzo” altamente simbolico (1 euro). E che, aggiungo io, consente probabilmente una minima integrazione dei redditi.
Un po’ di realismo politico, oltre che giuridico, impone che si ragioni sul fatto che le irregolarità e le informalità economiche non sono tutte uguali (in termini di sicurezza e igiene, per esempio, è intuitivo che vendere libri è diverso dal vendere pesce) e che l’integrazione dei redditi attraverso attività lecite ma formalmente irregolari è cosa bene diversa dal farlo svolgendo attività illecite che hanno per oggetto beni illeciti (fabbricare e spacciare droghe sintetiche, per esempio, è ben diverso dal vendere libri).
Soprattutto dovremmo prendere atto del fatto che, in termini economici, Messina è uno spazio “brasilianizzato” per usare una categoria della sociologia economica. È una città in cui, secondo i dati comunali e le ricerche universitarie, tra il 32 e il 40 per cento della popolazione dichiara tra 0 e 10.000 euro l’anno. C’è molta evasione nel mezzo? Sì, senz’altro. Ma occorre prestare molta attenzione a impiegare questa argomentazione al fine di sottovalutare l’enormità della questione sociale messinese, che coinvolge tutte le classi sociali (si veda qui per dei dati recenti), e che si è tradotta nella perdita di circa cinquantamila abitanti in quarant’anni. L’evasione, dunque, include tanto i ricchissimi del malaffare quanto i poverissimi, che navigano tra lavori obbligatoriamente in nero e poco redditizi, nell’edilizia così come in settori altrettanto incerti, stagionali e a elevato tasso di sfruttamento.
In tale quadro, la tolleranza zero e i raffronti con le città del nord sono solo sogni dirigistici e aspirazioni di un residuo di classe media che ha perso qualsiasi contatto con la realtà, oltre che l’empatia. E che per comprendere Messina non si dovrebbe guardare a Firenze o a Trento; ma alla città brasiliana o messicana. Luoghi, non a caso, che costituiscono il terreno privilegiato per l’adozione di politiche di tolleranza, integrazione e sperimentazione relative a quelle economie informali di sopravvivenza, che costituiscono – realisticamente, in termini economici, sociali e di polizia – un terreno di pratica obbligato per persone costrette a sopravvivere tra mille lavoretti.
Comprendere questo non significa rinunciare a essere Stato, sindaco o autorità pubblica, ma essere in grado di leggere correttamente il territorio rinunciando a vedere il governo urbano come la semplice arte di nascondere la polvere sociale sotto il tappeto.
Penso che l’intervento del Sindaco DE LUCA sia stato legale, anche se eccessivo. Sarebbe bene che gli interventi di questo tipo, da parte di un’autorità comunale fossero svolti più pacatamente e dopo un attento esame della situazione di degrado materiale e morale esistente in questa Piazza del Popolo attualmente in pieno degrado, ma che rappresenta tanta bella Storia della vita passata dai vecchi.