Questa è la seconda puntata di una esplorazione nel mondo delle divisioni sociali prodotte da De Luca il “diabolico” – ossia, andando all’etimologia del termine, da “colui che divide”. La tesi sostenuta in questa serie di articoli è che più che produrre semplice divisioni politiche, l’azione di De Luca investa sfere molto profonde della cultura locale, facendo emergere con veemenza complessi, sospetti, risentimenti e pregiudizi radicati nella storia e negli immaginari collettivi locali.

De Luca, del resto, è sistematicamente impegnato nel reinventare le tradizioni, selezionarle ed eventualmente eleggerle a componenti di un patrimonio cittadino da immettere in un presunto mercato delle identità tradizionali. De Luca, pertanto, è anche colui che si agita tra molte contraddizioni di ordine culturale. Un’idea connessa a ciò è che – forse perché effettivamente poco sofisticato da un punta di vista culturale – il nostro sindaco appaia alimentarsi di luoghi comuni sul funzionamento dell’industria turistica, della cultura come merce e dell’urbano in quanto tale. Inoltre è apparso sin qui sostenuto in questo percorso da un assessorato alla cultura che ne eguaglia la semplicità delle visioni.

In De Luca, ma anche tra i suoi sostenitori, convivono il mito della città moderna e il sogno del turismo. In questa quadro l’offerta culturale, improntata a dei non meglio definiti “antichi mestieri”, diventa una specie di villaggio natalizio in cui primeggiano zampogne e offerte culinarie. Non a caso, nel corso della sua campagna elettorale, fu del resto lo stesso candidato sindaco a dire all’incirca che, oltre a varie altre cose, “Messina è il castrato”.

Di riflesso lì ove gli “antichi mestieri”  o, per meglio dire, le passioni radicate nell’immaginario e nella pratica sono ancora attivi – come per esempio nel caso della pesca ricreativa – queste attività vengono severamente osteggiate. La spiaggia, ossia lo spazio fisico di esercizio di questa passione ancora viva, ma anche il terreno per un supposto rilancio del turismo, per essere desiderabile dovrebbe curiosamente apparire al visitatore come uno spazio asettico. Corrispondente cioè a qualsiasi altra spiaggia in luoghi unanimemente riconosciuti come turistici: ossia privo di barche, verricelli e tracce di ciò che rende le spiagge messinesi posti vivi e abitati, anziché un monumento imbalsamato (malgrado i blog di viaggio non assecondino questa aspirazione asettica e vengano spesso presentati luoghi con barche di pescatori).

Il suddetto esempio serve a mostrare come l’immaginario sulla modernità espresso  da De Luca sia da un lato “isomorfico” – debba cioè produrre forme standardizzate e identiche a supposti modelli – e, dall’altro, recuperi immagini idilliache ancorché ampiamente scomparse dall’immaginario e dai costumi reali. Questo, per lo meno se si concorda con me che è all’incirca dagli anni ottanta che l’immagine dello zampognaro non sia tra quelle più vive ai fini della memoria urbana messinese, né che sia quello che agita forme immediate di adesione e nostalgia tra chi abbia, poniamo, meno di 60 anni.

Verosimilmente le zampogne fanno invece parte dell’immaginario di De Luca, che ha una provenienza periferica e rurale. E sono dunque una manifestazione di un suo intimo immaginario che egli tenta di imporre ed esportare nel cuore della città. Ciò che è rilevante, a ogni modo, è che se le operazioni culturali sono davvero metafore dell’immaginazione politica e della sua azione, l’opera di silenziamento di pratiche vive come la pesca a favore di tradizioni morte come le zampogne e i supposti antichi mestieri, è essa stessa una metafora del progetto urbano di De Luca. Una specie di lotta della morte contro la vita.

Se quest’ultima asserzione risulterà eccessiva e persino vaneggiante per l’esercito dei sostenitori, credo che essa descriva ciò nondimeno un importante elemento di divisione sociale. Segna, cioè, una percezione del sindaco, della sua azione e del suo milieu culturale che è molto diffusa tra gli oppositori. Ossia la percezione di De Luca e del mondo che lo esprime e sostiene come di una sorta di cimitero delle ambizioni, dei progetti e delle pratiche culturali – quelle vive e non certo quelle imbalsamate o, magari, “zombieficate” – che si agitano nel sottobosco della città e da qui si proiettano all’esterno (il numero di artisti, attori, studiosi, stilisti e scrittori messinesi noti a livello nazionale e internazionale è, a ben pensarci, piuttosto alto per una semplice città di provincia).

In altri termini se De Luca incarna per i suoi sostenitori il sogno di una città “moderna”, per molti suoi oppositori egli incarna il trionfo dell’oscurità. Un’oscurità fatta di osceni spettacolini per il “popolo”, di cantanti neomelodici, di tribute-band e di un gusto artistico che riflette la sensibilità di un villaggio di poche anime incastonato tra le montagne oppure di un quartiere di malavita, anziché il gusto di una “città”. In questa rappresentazione che contrappone l’“alto” e il “basso” è naturalmente implicito un “conflitto di classe”, del quale i pregiudizi in merito a ciò che debba considerarsi arte, a chi abbia il diritto di proclamarsi artista e a quali siano le funzioni del potere pubblico nel diffondere i valori connessi da sempre all’arte, costituiscono solo un paragrafo (lo stesso alla base della sconfitta della sinistra in Italia, peraltro).

Ma se il punto è costituito qui dalle percezioni reciproche, non si può allora sfuggire al dato di fatto che nella prospettiva delle politiche culturali De Luca e il suo elettorato sono per i loro avversari l’esatto opposto della modernità desiderabile e dell’autenticità. Incarnano, cioè, il grigio e la ristrettezza intellettuale. I valori di una società che – al contrario di ciò che si dice – la “modernità” non è proprio in grado di reggerla e deve dunque orientarsi verso valori rassicuranti e anacronistici.

Ma è l’idea stesso di urbano, in realtà, a costituire un terreno di contesa. Per De Luca e i suoi sostenitori, infatti, l’urbano è il “decoro”. Se la pulizia delle strade è, naturalmente, un elemento che mette tutti d’accordo, ciò che agli oppositori non risulta chiaro è come un termine legato alla cosmetica della materia (il “decoro” è, essenzialmente, la facciata delle costruzioni) sia potuto diventare quel termine acchiappa-tutto che mette insieme spazzatura, senza-casa, rifugiati, prostitute e assenteisti. La questione – che non è comunque solo locale ed è anzi il risultato del lavorio culturale iniziato dalla Lega a metà degli anni novanta  – è che nel campo semantico di quella parola è finito con l’essere compreso tutto ciò che viene considerato dai più “spazzatura sociale”. Ossia il superfluo di cui occorre liberarsi.

Tra la passione per questo modo di intendere  “decoro” e le politiche culturali di De Luca c’è, per chi si oppone al sindaco, molto più che un sottile filo di unione. Quel che vi è di comune, infatti, è l’idea di sbarazzarsi dell’urbano e della sua complessità. La medesima complessità, per inciso, che unisce da sempre le città all’arte viva (non dunque quella zombificata di De Luca né quella quella imbalsamata dei musei e delle “città d’arte”). Il sogno di una città ordinata è in altri termini il sogno di un paese rurale.

Infatti, sia pure in proporzioni diverse da luogo a luogo, il caos, il traffico la maleducazione e lo sporco sono sempre parte integrante della vita urbana e delle sue narrazioni, malgrado gli sforzi delle amministrazioni siano ovunque concentrate sui centri cittadini. Ossia su quelle porzioni di spazio visibili a tutti in cui la performance amministrativa può  fare effettivamente la differenza e impressionare i visitatori. Ma nessun vero conoscitore delle città considerate come modello da gran parte dei messinesi può ignorare il fatto che tutti questi centri – dalla provincia emiliana alle metropoli nord-americane – sono attraversate da identici temi correlati alle manifestazioni dell’“inciviltà”. E non è un caso, come sappiamo, che molte persone si stufino dei centri urbani e li abbandonino a favore di ridenti località semi-naturalistiche in cui riconnettersi con sé stesse dopo una giornata di lavoro e tensioni in città.

Ciò che conta, comunque, è che il mito della città ordinata è una utopia reazionaria. Un’utopia che fa piazza pulita proprio dell’urbano, oltre che della tolleranza e della complessità.

(continua)

Qui la prima puntata 

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