Volete fare l’esperienza di un quadro che vi guarda? Non rivolgetevi alla miriade di ritratti che la Storia dell’Arte vi offre. Si tratta, nella gran parte dei casi, di ritratti autoreferenziali, arroganti, annoiati o distratti, quasi sempre ripiegati su se stessi. Dei ritratti intrisi di narcisismo. A me in questo momento viene in mente una sola eccezione a questa indifferenza del ritratto nei riguardi di chi lo guarda, ed è lo straordinario Ignoto antonelliano del Museo Mandralisca, su cui Leonardo Sciascia ha scritto pagine memorabili.
C’è invece un quadro che mostra palesemente di voler rivolgersi al guardante, ed è l’Angelus Novus di Paul Klee. Qui, una figura stilizzata di angelo, con le ali spiegate in avanti, tiene però la faccia ruotata di 180 gradi come l’indemoniata dell’Esorcista, e guarda fisso negli occhi lo spettatore. Il suo sguardo è vivace, sornione, quasi allegro se non beffardo. Pare che se la rida a compiere quella estrema torsione che ce lo pone dinanzi, vis a vis, nonostante la sua direzione, il suo télos vada in senso inverso.
Walter Benjamin ci ha lasciato, proprio nelle sue Tesi di filosofia della storia (in Angelus Novus Einaudi 1961, evidentemente ispirato al dipinto), delle considerazioni folgoranti sull’Angelo di Klee:
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”.
L’Angelo guarda noi, e dietro noi dispiega lo sguardo sull’intero nostro passato, sulla storia dell’uomo. E questa storia, che a noi appare “catena di eventi”, egli la vede e la compendia come “una sola catastrofe”. E come avrebbe potuto vederla altrimenti l’angelo-Benjamin che, scrivendo quelle pagine nel 1940, aveva dinanzi a sé la catastrofe nazista, quella sorta di male assoluto che ha imbrattato per sempre la storia dell’uomo, sicché questa storia da allora in poi non è più riuscita ad essere pulita, “presentabile”?
Benjamin vuole dirci che il mito del progresso illimitato, della civiltà che ascende de claritate in claritatem (come argomentava ingenuamente il buon vecchio Croce), è appunto un mito; che la barbarie sta sempre acquattata dietro le nostre magnifiche sorti e progressive, pronta sempre a saltar fuori tutte le volte che i sonni della nostra ragione producono mostri.
In Russia e in Cina, ad esempio, il sonno della ragione comunista ha prodotto dapprima lo stalinismo, seguìto ben presto da una serie di archeo-capitalismi caratterizzati dalla barbarie, dal disprezzo della libertà e della dignità della persona, da una sostanziale logica da bestiame bovino (già lucidamente preconizzata da Orwell nella sua allegorica Animal Farm).
Ma l’Occidente euro colto non è stato capace di far di meglio. Senza considerare di che lacrime grondi e di che sangue la sua (oggi solo apparente) opulenza, con le stragi e i genocidi che hanno punteggiato il suo affermarsi come culla della democrazia, con gli orrori delle avventure coloniali e i tanti cuori di tenebra che ne hanno caratterizzato il percorso, senza considerare tutto ciò, basterebbe solo riflettere sulla radicale perdita di senso che in Europa e in America ha investito gran parte degli orizzonti esistenziali, ideologici, etico-politici delle persone. I recenti esempi di sovranismo, razzismo, intolleranza e paura di tutto quanto sia diverso, posti in essere dalle macchiette politiche oggi maggioritarie, sono lì a dimostrare come l’Occidente abbia come smarrito una parte significativa della propria identità, quell’identità faticosamente costruita in duemilacinquecento anni attraverso la civiltà greca, il messaggio evangelico, l’umanesimo, l’Illuminismo, le grandi battaglie per la democrazia e la cultura dell’incontro e del confronto amichevole con tutte le esperienze culturali, religiose, sociali espresse da quanti, in buona fede, avessero analoga cura per le sorti comuni del pianeta.
Ecco il cumulo delle rovine di cui ci parla Benjamin, quelle rovine tra le quali noi oggi ci muoviamo a fatica cercando di tornare a sillabare discorsi elementarmente umani, discorsi che in questo triste tempo di pandemia forse al solo Jorge Luis Bergoglio sembrano stare a cuore.
A metà del secolo scorso l’antropologo Claude Lévi-Strauss aveva già messo in dubbio la concezione unilineare e progressiva dello sviluppo delle civiltà. Circa un decennio più tardi, in Italia, Pier Paolo Pasolini, nella forma poetica che gli era propria, contestava l’identificazione tra “sviluppo” e “progresso”, segnalando profeticamente come la società dei consumi avrebbe sortito – come poi è di fatto avvenuto – quella devastante “scomparsa delle lucciole” che ha progressivamente impoverito gli orizzonti naturali e culturali dei nostri angoli di mondo, facendo smarrire le identità locali e producendo una perniciosa mutazione antropologica che ha arrecato danni alla qualità della vita e ai rapporti delle comunità con gli ecosistemi in cui esse sono inserite.
Eppure… eppure deve esserci per noi una maniera di evadere da questa prigione. Secondo Benjamin (un tipo assai strano, che studiava tanto Karl Marx quanto la Qabbala ebraica) ci può essere un télos, una direzione che l’umanità tutta può imbroccare. Ma questa direzione l’umanità non è in grado di darsela da sé. Deve attendere (messianicamente) che giunga un vento, una tempesta a indicarne il senso di marcia. Leggiamo come egli prosegue il brano sopra riportato:
“Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
Cosa intendo proporre, a mo’ di pistolotto quaresimale? Che forse è solo nel Tutto verso cui noi tutti siamo incamminati, un Tutto non inerte e asettico ma piuttosto benevolo e amorevole come un Padre, che possono ricomporsi le macerie tra le quali oggi ci aggiriamo annaspando in cerca di luce.
A me l’Angelo della Storia fa spesso venire in mente il piccolo ebreo polacco sfrattato dal ghetto e deportato insieme ai suoi nel 1943:
Forse però quelle braccia alzate, e quello sguardo non più beffardo ma pieno di amore e, perché no, anche ironico sulla nostra povera condizione umana è il caso che ci sforziamo tanticchia di vederlo nel giovanotto di Galilea un tempo appeso a una croce, e in quello che il sangue e l’acqua da Lui donati possono ancora darci.