A Messina a Natale ci sono due grandi certezze: i fuori sede che rientrano e fanno il “giro di saluti” tra amici e parenti e l’infinità del pranzo del 25. Se la soluzione al primo problema è semplicemente “ghiantare” (anche se ormai non si può più usare la scusa del “sto poco bene” perché ti mandano l’Asp a casa), nel secondo caso l’unica cosa da fare è arrotolare le maniche, sbottonare i pantaloni e sottoporsi a quella sorta di piacevole supplizio che è il pranzo di Natale, tra una portata di pasta ancora bollente e il dover spiegare ai parenti che quello che fai non è un hobby ma un lavoro vero. Così dopo un non troppo salutare digiuno mattutino di preparazione e dopo aver maledetto la scelta di poche ore prima, quando il cugino di turno ritarda (c’è sempre un cugino che ritarda), ti siedi a tavola in un mix di emozione e speranza, sapendo che quella è una battaglia che devi vincere (spoiler: non ce la farai). Per tradizione l’antipasto è un tagliere casalingo di salumi, formaggi vari e olive, che avrebbero l’obiettivo di “‘iapriri a fami”  ma che la fame te la fanno passare, perché ne mangi in quantità industriali, tutto accompagnato dal pane. Pessima scelta. Cominci a capire come gira il mondo quando lasci l’ultimo pezzo della tua fetta di pane a rotolare sul tavolo perché arriva la portata principale: a pasta o funnu. La pasta al forno è quella pietanza che ufficialmente funge da primo, ufficiosamente da pasto completo, soprattutto quando le nonne, quelle vecchio stampo, caricano nella guantera praticamente tutto quello che trovano in frigo. Ingredienti immaginabili e non, tanto che la prima portata diventa un gioco a quiz su chi indovina più ingredienti. Sosizza, mulinciani e uova sono i protagonisti che si lasciano accompagnare da salumi o mix di formaggi, tutto affogato in un ragù cucinato a fuoco lento dalle cinque ore ai tre giorni con relativo ciauro che funziona un po’ come il canto delle sirene per Ulisse. Leggenda narra che i cardiologi messinesi sul comodino non abbiano la foto con la famiglia, ma con il pranzo di Natale, quindi per restare sulla scia del colesterolo alto, il secondo è tutto a base di carne. A tratti fritta, a tratti arrostita, anche in questo caso la preparazione è stata una sorta di rituale. La carne infatti si compra fresca il 24 dicembre, più tardi è meglio è, per non congelarla e farle perdere il gusto, ‘mensa ma. Si cuoce prima del pranzo e poi in genere si trasporta nella stessa teglia di cottura, possibilmente avvolta da uno strofinaccio. Leggenda vuole che sia proprio il trasporto da una casa all’altra a rendere la carne del 25 dicembre particolarmente gustosa, perché resta a marinare nel suo brodo, per poi essere riscaldata di nuovo poco prima di essere servita. La tavola, intanto, è ormai decimata, alcuni commensali sono sduvacati sulla sedia, arresi. Altri provano ad arginare il danno mangiando la lattuga che era stata messa a centro tavola all’inizio del pranzo. Sono pochi quelli che hanno il coraggio di fare un giro («si ma poco, solo per assaggiare» cit.) di carne al sugo, salsiccia arrostita, braciole accompagnati dai loro sughetti, dalle patate al forno, e dalle verdurine bollite che verranno inevitabilmente lasciate in un angolo del piatto dopo un «queste non le mangio, sto scoppiando». Prima di cominciare con le seconde portate, i temerari riempiono i bicchieri di vino, possibilmente fatto in casa, accompagnando al gesto la storia dalla vendemmia homemade esordendo con un classico: «st’annu vinni bonu»frase che viene ripetuta ogni Natale. Mentre una braciola zuppa di sugo scappa all’ultima forchettata pensi: «ho vinto, ce l’ho fatta» e quasi tiri un sospiro di sollievo perché si, è finita. O almeno credi. Sono più o meno le tre e mezza. Siete seduti a tavola da tre ore e qualcuno comincia a mostrare segni di cedimento così chi è ancora in sé propone ingenuamente un caffé. Ma il caffé a Natale non arriva da solo. La tavola da poco sparecchiata si ripopola di cibo: panettone, cannoli, piparelli, qualche bottiglia di spumante, lo zibibbo, alcol a volontà, sembra di essere in America dopo il proibizionismo. Ti spiattellano davanti una fetta di panettone grande quanto la tua faccia. Tu la guardi, lei ti guarda. Fai un sospiro. Ti stai arrendendo? Non farlo.
Tanto il due gennaio ti iscrivi in palestra.

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