Un risultato deludente su tutti i fronti: così appare la decisione della Consulta riguardo all’Italicum, soprattutto se messa in parallelo con il “Consultellum”, ovvero le disposizioni elettorali per il Senato su cui la Corte costituzionale si era già pronunciata. A spiegare i diversi punti di vista che, in fondo, con le dovute sfaccettature, arrivano alla medesima conclusione, sono Luigi D’Andrea, ordinario di Diritto Costituzionale dell’Università di Messina ed Enzo Palumbo, ex senatore liberale messinese, già membro del Csm, nonché firmatario di uno degli esposti contro la legge elettorale che hanno determinato l’intervento dei giudici.

Luigi D’Andrea

La prima premessa è che la sentenza va letta in tutte le sue parti, almeno sotto il profilo tecnico”, spiega immediatamente il professore, che però aggiunge, alla luce di un suo precedente intervento in un Forum che vedeva confrontarsi altri dieci costituzionalisti: “Secondo me, l’Italicum ha subito il contraccolpo del referendum, poiché alcune soluzioni che potevano apparire sensate nel contesto della Costituzione riformata, con il mantenimento dell’impianto risalente al 1948 rischiavano di diventare incostituzionali. Penso al ballottaggio, sostituito con il sorteggio in caso di pluricandidature, che deciderà i destini dei primi dei non eletti. La situazione – continua – è comunque curiosa, perché il premio di maggioranza rimane, anche se bisognerebbe toccare il 40%, raggiungibile solo se più forze si riunissero in una lista”. Una spinta alle coalizioni che trova eco nel “Consultellum”, “dove sono previste, così come disposto dalla Corte, ed incentivate da uno sbarramento all’8 per cento”. Questi, invece, altri aspetti messi in luce da D’Andrea: “Il capolista viene mantenuto, ma si deve tenere conto che, parlando dei ‘nominati’, presenti peraltro in altri sistemi elettorali, adesso i loro nomi sono scritti sulla lista. Ciò significa che, teoricamente, se l’elettore sa che il capolista è inadeguato, allora potrebbe non votare per la sua forza politica al fine di scongiurarne l’elezione”. “La Corte – argomenta – non ha il dovere di trovare una soluzione alla legge elettorale. Non sta ai giudici, ma alla politica, imboccare una via d’uscita.. La Consulta ha solo il compito di sanzionare le parti di una legge che ritenga non conformi alla Costituzione”.

Ma quali sono gli scenari possibili? “Credo che, ragionevolmente, il legislatore dovrà tenere conto della sentenza, ovvero non potrà reintrodurre elementi eliminati ma sarà sua facoltà anche proporre una legge ex novo o armonizzare i meccanismi di elezione di Camera e Senato. Si deve tenere conto – conclude il docente – che a Palazzo Madama è stato cassato il premio di maggioranza regionale, e così si rischia di andare incontro a quell’ingovernabilità che gli stessi nemici dell’Italicum hanno sempre indicato come uno dei problemi italiani”.

Enzo Palumbo

Nonostante il “successo”, invece, Enzo Palumbo, un passato da senatore del Pli e un presente da avvocato, è insoddisfatto: “La Corte ha fatto il minimo indispensabile, cioè eliminare il ballottaggio e la discrezionalità dei candidati plurieletti, resuscitando una norma del 1957 che prevedeva che, in assenza di opzione, si andasse a sorteggio. Il massimo, invece, avrebbe potuto riguardare l’eliminazione dei capilista bloccati. Con la legge rimasta in piedi, infatti, due terzi della prossima Camera saranno composti da deputati nominati. In più, la Consulta avrebbe dovuto cassare anche la possibilità di candidarsi in più collegi, perché questo genera una differenza nell’elettorato passivo tra capilista e candidati in lista, cosa mai vista durante la Prima Repubblica, quando chiunque si poteva candidare. In questo senso, credo che, addirittura, la sentenza sia peggiorativa rispetto a quella del 2014, che eliminava i capilista bloccati, sancendo che le liste le compongono i partiti ma i candidati si eleggono con i voti. La Corte – spiega – poteva altresì eliminare il premio di maggioranza al primo turno, in quanto consustanziale a un sistema bipartitico e bipolare, ma non a un sistema che non lo è, perché, nei fatti, siamo in un tripolarismo”.

Insomma, per Enzo Palumbo questa sentenza avrebbe potuto fare di più, in quanto “sarà un solo partito a vincere e uno solo pareggiare, mentre un eventuale terzo andrà incontro alla sconfitta e a un quarto verrà negata la possibilità di affacciarsi al proscenio della politica. Questa legge elettorale, nelle parti rimaste, sclerotizza il panorama politico. Io – argomenta – sono sempre stato convinto che i governi si facciano in Parlamento, dove sono le forze a dover trovare un compromesso, che non è una brutta parola, perché significa accordo. Un altro difetto – aggiunge – è stato non prendere in esame le soglie per il Senato, che sono eccessive e irragionevoli per un partito che si vuole presentare da solo, stroncando così la nascita di nuove iniziative”. Per Palumbo, emerge una questione su tutte: “Perché, dal 1994, la gente ha votato in minore misura? Perché non ha trovato il proprio partito e si è stancata di votare contro gli altri; e questo ha modificato i comportamenti degli eletti, con oltre trecento parlamentari che hanno cambiato casacca dall’inizio della legislatura”. “Il rimedio – secondo l’ex senatore – non è limitare la libertà del mandato, ma tornare ai partiti tradizionali, che esistono in tutta Europa tranne che in Italia, dove per identificarli si è fatto ricorso a geologia e botanica”.

In conclusione, Enzo Palumbo lascia spazio a un mea culpa: “Nel 1993, io votai a favore del referendum Segni, che, in realtà, non era tanto per introdurre il maggioritario quanto per bloccare la Lega, spingendo i partiti tradizionali, che non avevano più il 50%, a coalizzarsi, tagliando così le gambe al Pds e alla Lega. La conclusione? I vecchi partiti si divisero, Berlusconi scese in campo e il Carroccio non fu fermato. In tal senso, sono pentito della mia scelta d’allora…”.

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