MESSINA. Ieri, al Comune, una rappresentanza delle famiglie che abitano la Bouganville occupata  ha chiesto un’interlocuzione all’amministrazione per l’attivazione di servizi essenziali come luce ed acqua nella struttura ex Anffas (abbandonata ma di proprietà comunale) occupata da giugno da sei famiglie. Gli occupanti non sono riusciti ad incontrare il sindaco Renato Accorinti, che ha evitato il confronto. Sul futuro della Bouganville occupata, e sulle ragioni dell’occupazione, riceviamo e pubblichiamo un contributo di Pietro Saitta, uno degli animatori del comitato.

 

La storia è nota e persino trita. Da fine giugno sei famiglie, con quindici minori a carico, occupano un edificio pubblico abbandonato da alcuni anni. Una struttura in cui avvenne un incidente (una folgorazione inspiegabile, che nel 2014 uccise una persona) e che fu perciò lasciata in fretta e furia dall’organizzazione che lo aveva in gestione. Vanificatisi i tentativi di riassegnarlo ad altri enti, nonostante le perfetti condizioni, il Comune si era rassegnato all’idea di lasciarlo vuoto.

In parallelo, come in un film, una porzione crescente della città assiste al proprio depauperamento. Sullo sfondo troviamo dei lavoratori “poveri”,  attivi per lo più in campi, come quello dell’edilizia, proverbialmente esposti al lavoro in nero, alla stagionalità e ai bassi salari. Una fetta fondamentale della popolazione urbana che si ritrova dinanzi a dilemmi insolubili, come quello che li pone dinanzi alla scelta tra pagare l’affitto oppure le spese correnti. Il cibo, i libri per la scuola dei bambini presenti in gran numero, i medicinali, l’energia elettrica, l’acqua…

Ed è a questo punto che, contrariamente alle aspettative, parte di questa popolazione marginalizzata – normalmente preda designata del clientelismo, dei feudi politici e di una miriade di “politiche personali” escogitate per uscire dalla miseria – fa ciò che l’opinione pubblica non si aspetterebbe: si organizza e irrompe nello spazio pubblico, riappropriandosene. Occupa, cioè, quello stabile pubblico di Giostra che soggiace da anni al vuoto e lo elegge a casa. Ma nel fare questo, organizza anche un gattile, convegni sui bisogni abitativi, presentazioni di libri, una ludoteca e un abbozzo di cineforum.

Questa infima porzione di sottoproletari, cioè, propone a sorpresa quell’idea di “bene comune” che è stata alla base di un importante dibattito politico-culturale di questi anni e di alcune vittorie politiche. Inclusa quella di Renato Accorinti.

Ci sarebbe dunque da attendersi che la Giunta messinese del momento facesse tesoro di questa esperienza di cittadinanza attiva e “dal basso”, così rara secondo una diffusa letteratura sociologica sui mali del Mezzogiorno. Ciò che invece apprendiamo dalle parole rilasciate al Carrettino delle Idee dall’Assessore alle Politiche della Casa, Sebastiano Pino, è che: “l’immobile è inserito all’interno della programmazione PON Metro (Programma Operativo Nazionale “Città Metropolitane 2014 – 2020”) per risolvere parte del problema abitativo. Di conseguenza  tra poco dovrà essere liberato perché a breve inizierà la progettazione […] L’assegnazione segue delle graduatorie pubbliche che vengono gestite dal dipartimento delle politiche della casa. Il nuovo bando sarà pronto a breve, entro una decina di giorni. Non può passare il principio che, chi occupa, scavalca chi è in graduatoria. Il problema diventa quindi di natura sociale, e va quindi affrontato dal dipartimento alle politiche sociali che può risolvere la questione con gli strumenti che si hanno a disposizione. Che siano le case famiglia, o  strutture come ‘Casa Serena’. Tutto questo in attesa che arrivino i fondi PON Metro che prevedono soluzioni di tipo emergenziale. Soluzioni temporanee in attesa del passaggio in graduatoria e quindi all’assegnazione di alloggi popolari”.

Di fronte a chi prende sul serio il programma di una Giunta appartenente al circuito delle “città ribelli”, la risposta dell’autorità è, dunque, lo spezzettamento per un tempo imprecisato delle famiglie entro strutture assistenziali in cui sono normalmente ammesse solo donne e minori; lasciando pertanto gli uomini liberi di arrangiarsi, ricorrendo a reti familiari oppure all’automobile o alla stazione dei treni (una traiettoria tutt’altro che ipotetica, secondo la letteratura sociologica sulle nuove povertà).

Di fronte all’inadeguatezza delle politiche sociali italiane – ampiamente denunciate in qualsivoglia sede scientifica, oltre che dalla stampa – l’Assessore di una Giunta che avrebbe dovuto sperimentare nuove forme di organizzazione dei servizi sociali, opponendo la ritirata dello Stato dal pubblico e immaginando nuove forme di welfare “dal basso”, può rispondere solo impiegando categorie legaliste. Fornendo, cioè, risposte apparentemente di buon senso, che avrebbe però potuto fornire qualunque acritico osservatore di cose pubbliche.

Le risposte, in altri termini, fornite da chi, cresciuto nel senso comune penale emerso da Tangentopoli, vede nel rispetto a ogni costo delle regole l’unico orizzonte possibile dell’azione pubblica. Lì ove, invece, dovrebbe essere ormai chiaro che la legalità non è affatto automatico sinonimo di giustizia sociale. E neanche di buon senso. Gli illegalismi, invece, dovrebbe essere per lo più intesi come l’unica risposta plausibile e necessaria dinanzi a politiche sociali ampiamente incapaci di rispondere ai bisogni primari e, anzi, responsabili di rinforzare oggi il circuito dell’immiserimento.

Le politiche sociali, infatti, hanno da tempo smesso di essere scudi contro la povertà. Al contrario partecipano, insieme alle politiche per il lavoro, all’indebolimento del corpo sociale. Sei senza casa e salario? Vai in casa famiglia! Sei disoccupato e altamente formato? Accetta qualsiasi lavoro e non preoccuparti di quale sia la tua formazione, né di essere felice e protetto sino a che potrai realizzarti! Aspetti i soldi del sussidio? Te li daremo, ma tra alcuni anni! E così via…

In questo quadro, se la legalità è indubbiamente un valore, essa è anche qualcosa che non ha nulla a che fare con le umane possibilità e la plausibilità. Chi, infatti, appartenente a un nucleo familiare sì povero, ma anche dignitoso e sereno, accetterebbe di vederlo dividersi sine die in nome di astratte nozioni di legalità, separate dal principio di umanità? Chi, in ragione di principi amministrativi astratti e futuribili (le graduatorie che verranno un giorno, quando finalmente saranno disponibili quei fondi Pon vantati da tempo, ma non ancora disponibili), accantonerebbe un’esperienza e una collocazione abitativa che è già presente e funzionante, negando l’attivazione a carico dei residenti di utenze basilari come quella elettrica? Queste osservazioni, che non sono semplici speculazioni astratte di un accademico militante, hanno un solido attaccamento al reale. E questo reale, nel caso messinese, ha un nome: Bouganville occupata.

In conclusione, ci saremmo attesi maggiore creatività dall’assessore di una Giunta “ribelle” e dai suoi colleghi, convinti come siamo che se il valore della regolarità procedurale è alla portata di qualunque oscuro tecnico cresciuto a pane e diritto, quello della giustizia sociale richiedeva una capacità di visione superiore dei problemi del presente. Quella, evidentemente, che ci eravamo illusi potesse avere il corrente gruppo dirigente della città di Messina.

 

Pietro Saitta è ricercatore di Sociologia Generale. Ha insegnato e condotto ricerca presso numerose università e centri di studio internazionali. È autore di numerosi volumi e saggi, alcuni dei quali dedicati all’universo subalterno messinese. Tra i suoi lavori sulla città, Quota zero. Messina dopo il terremoto. La ricostruzione infinita (Donzelli, 2013). 

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Pippo
Pippo
30 Ottobre 2017 8:11

Una volta si occupava ma poi non si chiedeva per favore l’allaccio alla corrente elettrica al proprietario…