Anche un Papa  parlò del silenzio di Dio. Dio che nasconde il suo volto “per tutto il male … fatto” (Deuteronomio 31:18). Ma dietro il celarsi di un volto si nasconde l’incapacità umana di vederlo quando c’è. E nelle scritture il dire: <non nascondermi il tuo volto>,  lo troviamo come espressione di una angoscia e di una ricerca costante. E allora l’olocausto è assenza di Dio o anche e soprattutto reiterata assenza dell’uomo?

 Questa del 27 gennaio è la rimemorazione della apertura dei cancelli di Auschwitz, dove si compì in larga misura lo sterminio degli ebrei. Rimemorazione che, si è detto, non può diventare routine, e nemmeno affermazione di superiorità nei confronti di diritti altrui rivendicati senza speranza, ma dovrà  servire per riannodare i fili di una possibile storia altra rispetto alla tragica unicità della Shoah. La memoria dei crimini commessi, anche da noi, non si compensa solo ricordandoci che fummo capaci di ribellarci alla tirannide o che singoli aiutarono molti a salvarsi, ma auspicando luce sulle pagine scomode, come fece la Arendt, e non acquisendo, come spesso appare, possibilità, per allucinante risarcimento, di orgogliosa licenza di uccidere, di far morire altri. Anche questo male sarebbe banale.

Muoviamoci da Benjamin, dalla sua filosofia della storia: C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Ma una tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Ma in che cosa consista la sua novitas non ci viene detto. In quel quadro pare trasformarsi nell’Angelo Giudicante. L’Angelo della Storia. Vede la storia e i suoi lutti, lutti da giudicare? Una tempesta spira però dal Paradiso e gli impiglia le ali per impedirgli di “ricomporre l’inferno”. 

Sfogliando ad esempio le pagine della “Difesa della razza”, come fa Valentina Pisanty, in un libro che è stato presentato parecchi anni fa a Milano da Umberto Eco, si rimane colpiti dall’abbondanza degli stereotipi razzisti tramite cui, in ogni numero di quella rivista, i diversi gruppi umani (ebrei, africani, slavi, meticci, ecc.) venivano denigrati per sostenere, per contrasto, la presunta superiorità della “pura razza” ariana. Da questo punto di vista, la “Difesa della razza” -e alcuni geografi furono complici, lo analizzò severamente Lucio Gambi, anche con le teorizzazioni sulla geopolitica totalitaria- non fece che attingere da un vasto repertorio di pregiudizi già sedimentati nella mentalità comune. Si può dire che la rivista contribuì a cristallizzare, a perpetuare e a legittimare queste rappresentazioni xenofobe, le quali erano assurte a ideologia dominante (non dimentichiamoci che, in quel contesto, l’epiteto “razzista” andava inteso come un complimento). Ma l’elemento di relativa novità era costituito dalla pretesa (presa in prestito dalle teorie ottocentesche circa la naturale “ineguaglianza delle razze”) di dare basi scientifiche al razzismo, legittimandone i fondamenti. Anche scienziati cattolici si prestarono a dar corpo a queste assurde definizioni.

E allora: Giornata della Memoria per comprendere il senso di eventi orrendi e per tentare di capire con uno sforzo continuo della ragione il perché ciò sia potuto accadere. L’oblio è il contrario della storia. Ricordiamo non solo per capirne le cause ma per verificare se esse in qualche modo sopravvivono nel nostro tempo. Allora ci fu una cultura della discriminazione razziale che diventò l’ideologia portante di un regime che, a suo modo, fu capace di consenso; una strategia industriale, tecnologicamente adeguata, dello sterminio; una ricerca spietata della vittima fino all’annichilimento. Questo può in qualche modo ripetersi?

“Non ci sono demoni, scriveva Primo Levi, in <La ricerca delle radici> assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano”. 

Certo è difficile oggi bloccare, per via di tante vicende l’alibi citato secondo cui le vittime di allora potrebbero identificarsi con i carnefici di oggi. Ma, proprio per esorcizzare le fughe in avanti del riduzionismo e dell’antisemitismo, riproponiamo questo ricordare l’incommensurabile  tragicità della Shoah. E questo deve significare che bisognerà far si che anche in medio oriente due popoli sperimentino finalmente un futuro di convivenza. 

Anche la Chiesa, che qualche anno fa aveva chiesto perdono per i negligenti, e talvolta indirettamente complici atteggiamenti, sottolinea ancora con forza come non occorrano muri tra i due popoli, bensì ponti per una nuova comunicazione. Una indispensabile relazionalità del vivere nei territori. Questi due popoli per continuare a vivere dovranno volenti o nolenti imparare a vivere assieme. “Perché se la storia è tanta, forse perfino troppa, lo spazio è poco e bisogna assolutamente condividere…”. La strada che porta al futuro è una soltanto, senza equivoci di sorta: due stati per due popoli che una volta erano nemici (Elena Loewental). Utopia? No, unica ammissibile Realpolitik.

Ci insegnava Aldo Moro, in uno dei passaggi più intensi del suo magistero: …se fosse possibile dire saltiamolo questo tempo e andiamo direttamente a domani credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi…si tratta di vivere il tempo che ci è dato da vivere…con tutte le sue difficoltà, ma anche con le non accantonabili necessità. E questo deve valere anche per tendenze reazionarie e suicide che si manifestano. 

Adesso complicate dall’inverosimile, incredibile vicenda statunitense, dalla crisi europea, dal preoccupante riemergere totalitario in Russia, Turchia, dai ritorni indietro delle primavere arabe, dalle sanguinose vicende siriane, dal fondamentalismo islamico, dalla epocalità della inestinguibile migrazione che dal balcone africano, dal medio oriente, dal golfo, da plaghe orientali colora di sangue quel mare in mezzo alle terre che per Omero aveva il colore del vino. 

Le lacrime di un bambino mettono in discussione l’ onnipotenza di Dio, così come Auschwitz appunto….     Come è possibile pensare che questo dolore non cambi la terra! L’ etica del sapere è l’ etica della vita, della libertà, della pace. E soprattutto dei perché di tragedie diverse, sempre uguali, con inarrestabili migrazione e respingimenti post-umani, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie, mutilazioni, delitti di mafia…con paure che mangiano l’ anima. 

Come non ricordare che Bartolomé de Las Casas nel 1552 raccontò dell’ impegno evangelizzatore disatteso e della brutale colonizzazione, dello sfruttamento spietato e delle devastazioni delle terre d’ America e, con l’ Ecclesiaste, sdegnato, ripeteva: un sacrificio iniquo è un offerta macchiata. Dio non gradisce i dono degli empi. «le mostruosità che si compiono ai danni di quegli innocenti, che vengono massacrati e distrutti senza causa né giusta ragione, ma unicamente per colpa della sfrenatezza e della cupidigia.».  E la memoria che separa l’umano dal disumano é più forte delle contrapposizioni politiche e anche territoriali. Ma la memoria non tornerà per via delle commemorazioni. Dovrà venire da sola. 

Potrà rinascere dentro. Deve ridiventare cultura, punto di riferimento, di aggregazione. Patrimonio degli uomini del nostro tempo. Quelli che uscivano in quei giorni da Auschwitz, scrive ne <La Tregua> Primo Levi, ”non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno…era la stessa vergogna…che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono e che la sua volontà sia stata nulla…”. E allora il punto era di capire… “perché…Auschwitz è stato un accidente della storia…”. E di interrogarsi: “non si ripeterà più o e destinata a ripetersi come una modalità inscritta nel Dna del genere umano?” Nell’insonnia della ragione adesso si rinnova la rimemorazione della apertura dei cancelli di Auschwitz, dove si compì in larga misura lo sterminio degli ebrei. Rimemorazione che non può diventare routine, ma che deve servire per riannodare i fili della storia della tragica unicità della Shoah. Giornata della memoria quindi per comprendere il senso di quegli eventi orrendi e tentare di capire con uno sforzo continuo della ragione perché ciò sia potuto accadere. 

 L’Angelo della Storia ha cantato inni di lode e forse attende di cantarne ancora. Però al momento era come se non conoscesse canto. Vedeva la storia e i suoi lutti, i lutti che propongono il tema dell’onnipotenza di Dio. 

 Davanti a noi si aprono stupefatti, angosciosi interrogativi. Quelli ad esempio che la coscienza ebraica ha incontrato ad Auschwitz: un abisso di smarrimento e di dolore, e proprio questo problema sollevava un apice di angoscia sull’ontologia del male (in ultima istanza riportabile a Dio, o da Dio impotentemente subìto?). Lo smarrimento e l’angoscia non sarebbero così intensi se tutto non fosse in gioco, ossia il senso stesso della vita e l’essenza di Dio.

 Hans Jonas infatti, nel <Concetto di Dio dopo Auschwitz>, aveva affermato –e il suo vorrebbe essere più che un paradosso- che ”certamente Dio dovrebbe essere incomprensibile se con la bontà assoluta gli venisse attribuita anche l’onnipotenza”. E aggiunge che Dio non sarebbe intervenuto “ non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo”. In altri termini: concedendo all’uomo la libertà è come se avesse rinunciato alla sua potenza. Da qui la sua impossibilità di intervenire nella storia del mondo. Alla fine però, e non poteva dire diversamente, Jonas riconosce che ogni teodicea, cioè ogni tentativo -compreso il suo- di rispondere a quelle che erano state anche le domande inquietanti domande di Giobbe, è soltanto un “balbettio”. Si, ma ciò non toglie che Simone Weil arriva a dire che Dio crea e si ritrae, deve ritrarsi, sente di doverlo fare: se non lo facesse non ci sarebbe alcuna libertà per l’uomo, non avrebbe alcun valore il senso della sua fondante conquista di umanità.

Ma tutto questo interrogarsi, certamente scandaloso nel suo essere vero, questo sofferto “balbettio” ci riporta all’assurdo non solo umano di quella storia.

 Ma non è dalla filosofia che può giungerci la salvezza, aggiunge altrove Hans Jonas: questa ha la missione unica di tener vive le “antiche, venerabili, grandi idee della sfera etica e di riformularle in accordo ai nuovi modelli cognitivi.

 Per la responsabilizzazione etica dell’umanità. 

 Un ragazzo salvato dal campo di sterminio e divenuto premio Nobel, Imre Kertesz così dirà su un suo libro ‘Il secolo infelice’: …qualsiasi dittatura contiene in sé la virtualità di Auschwitz. E aggiungerà una rimeditazione del famoso detto di Adorno, secondo cui, dopo Auschwitz, non si possono più scrivere poesie. Kertesz appunto lo rileggerà così: dopo Auschwitz si possono scrivere poesie solo su Auschwitz.

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Francesco
Francesco
27 Gennaio 2017 22:14

Condivido – le riflessioni sulla giornata della memoria. Vorrei però che l’elenco dei giusti non fosse trascurato. Salvare la propria anima è per me il primo problema. Che avrei mai fatto con una divisa nazista ? Avrei resistito al torrente in piena del male ? Senza le occasioni di riscatto che l’8 settembre concesse a noi italiani mi sarei opposto con pur limitati fatti concreti all’orrore dello sterminio? Tra i geografi ora ricordo Giuseppe Gentilli che con lucidità aveva anticipato la tragedia e i suoi zii che la subirono per non abbandonare i vecchi del ghetto veneziano a loro affidati.… Leggi tutto »