Ho imparato ad amare l’Argimusco grazie a una bellissima persona che ora purtroppo non c’è più. Si chiamava Giuseppe Todaro, chiamato da tutti “u prufissuri”, un uomo che per quel luogo ameno e suggestivo non molto distante dalla sua Montalbano provava un amore infinito.

Da ragazzino ci andavo spesso con gli amici. Lasciavamo i motorini fuori dal cancello e ci inoltravamo a piedi lungo quelle stradine sterrate e fangose, fino a raggiungere il centro dell’altipiano e arrampicarci poi sulle rocce. Per noi, figli di montalbanesi che facevamo ritorno al paese per le vacanze estive, quelle lunghe passeggiate in mezzo alla natura erano molto più che una semplice scampagnata: si trattava piuttosto di un’esperienza ai confini del reale. Ammaliati dalle silhouette dei megaliti e dal silenzio perfetto che ci circondava, eravamo in grado di bighellonare fra quelle lande per ore e ore, inoltrandoci negli anfratti più nascosti, inerpicandoci come gechi sulle pareti scoscese o semplicemente restando imbambolati a guardare un panorama con pochi eguali al mondo: da una parte l’Etna, dall’altra le Eolie, in un unico colpo d’occhio capace di mozzare il fiato. Sdraiati supini sulla cima di quei reperti lunari che sembravano posati lì dalla mano di un dio, avvertivamo un senso di pace e di sintonia con la natura che non avremmo mai più percepito: era lo sturm und drang che studiavamo nei libri di scuola.

È difficile spiegare cosa provavamo: da un parte il brivido della libertà, l’ebrezza idiota dei sedici anni; dall’altra una sorta di smarrimento esistenziale. Eravamo a due passi da casa ma ci trovavamo al contempo in un posto fuori dallo spazio e fuori dal tempo, in uno scenario degno dei nostri amati manga o di un romanzo fantasy. A volte capitava che qualcuno portasse pure dell’erba (eh, vabbè).  Allora il senso di pace si faceva ancora più nitido e quelle gigantesche pietre geomorfe alte fino a 30 metri erano in grado di prendere vita, mutando aspetto e fattezze in base ai cambiamenti della luce. Noi restavamo a guardarli straniti, in preda ad astratti furori.

Crescendo, ho iniziato poi ad osservare l’Argimusco con occhi nuovi. Grazie al professore, e ai contributi che mandava anni fa al settimanale “Centonove”, ho scoperto la millenaria storia di quei luoghi, il rapporto con Re Federico, le misteriose pratiche del suo fido Arnaldo da Villanova e la strana correlazione fra quelle pietre e le stelle.

Durante le sue consuete visite guidate, Pippo Todaro si soffermava a lungo su ogni singolo megalite, illustrando le varie interpretazioni e alternando aneddoti personali con lunghe disgressioni “tecniche” sulla geologia, l’astronomia primitiva, i riti propiziatori degli antenati e la conformazione delle rocce. Se qualcuno non lo fermava era capace di parlare per ore ed ore, e la sua passione per quel luogo era di gran lunga superiore alla stanchezza accumulata in anni e anni di perlustrazioni, ricerche e interminabili scarpinate per raggiungere qualche punto ancora inesplorato al di là dell’Orante, del Guerriero, dell’Aquila o dell’Alchimista.

Proprio ieri, nel corso della cerimonia di apertura di una conferenza internazionale organizzata dall’Icomos, è stato annunciato quello che già si mormorava da tempo: l’Argimusco potrebbe diventare a breve Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. L’iter burocratico inizierà a giorni, sebbene il progetto sia già nelle intenzioni dell’assessore regionale alla Cultura, Sebastiano Tusa, e del soprintendente ai Beni culturali di Messina, Orazio Micali, che dovrà apporre il vincolo storico-monumentale al complesso rupestre.

Il professore Todaro avrebbe reagito a questa notizia – credo – provando un sentimento contrastante: da un lato una gioia incommensurabile, dall’altro l’amarezza per essere lontano dalla sua Montalbano (viveva da decenni a Bergamo, sebbene tornasse in paese a cadenze periodiche) e dal quel luogo che lui per primo, insieme ad altri pochi studiosi, aveva contribuito a far conoscere. Del resto l’Argimusco era una delle prime tappe obbligate quando rimetteva piede in Sicilia. Giusto il tempo di salutare amici e parenti ed era pronto a partire, con una bussola, un quadernino degli appunti e le scarpe vecchie ancora sporche di fango. Alla scoperta del suo luogo dell’anima. 

 

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