È il primo ottobre del 2009, alle cinque e qualcosa di mattina. Inizia tutto lì

Dormivo da un’ora e mezza forse: era venerdi, e la sanguinosa chiusura del numero di Centonove che a quell’ora iniziava ad andare in edicola, imponeva che il giovedi sera si dilatasse fino a tardi, fino a diventare venerdi, usualmente mai prima dell’una. Usciamo, io e un manipolo di colleghi, dalla redazione di via san Camillo 8.

E’ l’una passata. Pioggia come se Dio avesse deciso di risterminare l’umanità con un diluvio peggiore del primo. E ci stava riuscendo, come avremmo appreso di lì a qualche ora.

Arrivo a casa non so nemmeno io come. Due bicchierini per distendermi, qualche accordo di chitarra, poi guadagno il letto. Le tre passate.

Alle cinque e qualcosa suona il telefono. E quando qualcuno ti cerca alle cinque e qualcosa, o è un mandato di cattura a tuo carico, o è morto qualcuno. Era morto qualcuno.

“Vedi che a Giampilieri c’è stata una frana, dice che ci sono due morti”.

“Dice”.

Telefonata rapida all’unico collega come me non perturbato da incombenze di famiglia a quell’ora, Michele Schinella. Spiegazione sommaria. “Ti sto venendo a prendere, andiamo in moto”, concludo.
Tempo grigio, pioggerellina che in autostrada punge il viso. Come giornata di merda non c’è che dire, è iniziata alla grande. Statale 114 che sembra sia passato l’uragano Katrina. Ancora non abbiamo visto niente.

 

All’altezza del ponte di Briga la strada non c’è più. Scomparsa, proprio. Posto di blocco. “Buongiorno, non si può proseguire”.

“Siamo giornalisti”.

“Non si può proseguire lo stesso”.

Abbandoniamo la moto al suo destino, proseguiamo a piedi. Gli anfibi da militare affondano fino al settimo occhiello nel fango di quella che fino a sei ore prima era la statale 114. Ai lati della strada è pieno di mezzi militari: bobcat, pale, escavatori, idrovore, mezzi blindati, mezzi corazzati, mezzi anfibi. Sembrava stessimo per dichiarare guerra a qualcuno.

 

“Che cazzo ci fanno qui, e non dove c’è la frana?” è stata la prima domanda, quella alla quale nessuno, dopo tre giorni, ha saputo dare una risposta. Proseguiamo finchè si può. Poco. Poi ci arrampichiamo sulla collinetta. Ogni tanto, dal fango, spunta un binario. Stiamo camminando lungo quella che, di nuovo, fino a sei ore prima era una ferrovia. Ci guardiamo in faccia, sbigottiti.

Che cazzo sta succedendo.

 

Continuiamo. Viavai di mimetiche, divise, gradi di tutti i tipi, dai baffi alle tre stelle con la corona, giubbetti verde fluorescente, giallo fluorescente e arancione fluorescente. L’impressione, confermata dai fatti, è che nessuno sappia che cazzo fare. Arriviamo al sottopassaggio di Giampilieri, con la strada che dalla statale si inerpica lungo la collina. E’ tappato dal fango.


Ad un certo punto iniziamo a non credere più a quello che vediamo. E’ esattamente come essere in acido: quello che vedi non è possibile secondo logica, fisica, realtà. Saliamo. Lungo i bordi della strada scende fango. Già così sembra una catastrofe. Ancora non avevamo visto niente.

Iniziamo a renderci conto di quello che era successo quando vediamo il cartello che segnalava l’arrivo a Giampilieri superiore distare dal terreno una trentina di centimetri. Strano, lo ricordavo ad almeno due metri e mezzo di altezza dalla strada. Gli occhi dicono una cosa, il cervello rifiuta di capire.

 

Continuiamo a salire. Mi ricordavo che qui ci fosse un paese, invece non c’è niente. Niente di niente. Solo un ammasso di trenta o quaranta macchine, compresse nello spazio in cui dovrebbero starcene una decina.

Non sto davvero vedendo quello che sto vedendo. 

 

Non sto davvero parlando faccia a faccia con una signora, io per strada e lei dal balcone di casa, che normalmente rispetto alla strada è più alto di quattro metri. Un lampione che mi spunta ai piedi, alto non più di mezzo metro, me lo testimonia. Strano, mi dico, i lampioni li ricordavo più alti. Non lo sapevo, e non volevo nè saperlo nè immaginarlo, ma stavo camminando sui cadaveri di due famiglie, due metri e mezzo più in alto: tra me e loro, due metri e mezzo di fango. Facciamo questa considerazione con il fotoreporter Enrico Di Giacomo.

 

Ci arrampichiamo dalla stradina che arriva alla vecchia scuola, senza sapere dove, e soprattutto perchè. In qualche maniera ci portiamo al di sopra dell’abitato, con un occhio alla montagna che a questo punto avevamo di fronte.
Strano, ne manca un pezzo.


Lo seguiamo, quel pezzo mancante. E all’improvviso ci ritroviamo a Nagasaki nel 1945, o a Dresda durante la seconda guerra mondiale, o a Cartagine dopo che ci passarono i romani, o a Messina nel 1908. Palazzi sventrati, muri divelti, una casa che fuma: niente che abbia le sembianze di un paese. E’ via Vallone, apprenderemo dopo. Ci siamo noi, arrivati non si sa esattamente come, un paio di squadre dei vigili del fuoco, i militari della Brigata Aosta, qualche poliziotto, alcuni carabinieri, un tenente ed un capitano (uno di numero) della Finanza. Ne arriveranno altri, di uomini dello stato: ma dopo.

Ci guardiamo intorno. Un quadro di Hyeronimus Bosch.

 

Fotografie. Appunti. Video. Domande. Testimonianze. Pioggerellina. Sudore. Fango che si aggrappa agli anfibi. Cerata che non lascia traspirare. Batteria del cellulare che si scarica. Niente campo. Di fronte, scene irreali, da film. Talmente irreali che la frase che mi viene in mente più spesso è “non è possibile”, come se  ripetendola ancora e ancora, e rifiutandomi di accettare la realtà, tutto in qualche modo tornasse a canoni che potevo gestire. Come i bambini che nascondendosi chiudono gli occhi, certi che questo gli dia il dono dell’invisibilità. Perchè vogliono che sia così. E invece non è così. E’ una catastrofe, e liggiù ci sono persone morte.

 

Arrivano i colleghi. Ci salutiamo. Non parla nessuno. Sono i colleghi di Messina, quelli che si sono immersi nel fango per raccontare di persona, non gli inviati dei grandi giornali nazionali, che con le scarpe pulite e il culo al caldo descrivevano “la morte vista con i nostri occhi”. “I nostri occhi” un paio di palle.

 

Tutt’intorno ci sono occhi sgranati. Ordini abbaiati più per frustrazione che per gerarchia. Due elicotteri fanno il girotondo. Un uomo scava a mani nude. Una madre guarda fisso un punto in quella che probabilmente era la sua casa. Un costume di carnevale da Gabibbo. Un po’ di videocassette sparse su quello che resta di una camera da letto.

 

Sacchi verde oliva con cadaveri dentro: non hanno nè la forma nè la compostezza dei sacchi da cadaveri. Piuttosto sembrano pieni di qualcosa che non ha forma, e di sicuro non orizzontale.
Sacchi pieni di pezzi di cadavere portati a braccio da ragazzi nemmeno ventenni in divisa mimetica e colori della brigata Aosta.

Il cervello fa clic. 
E si volta dall’altro lato.


C’è un silenzio innaturale, data la presenza di un centinaio di persone. Ecco, quello si che fa paura. Scendiamo in paese. Un piccolo trattore di un agricoltore del luogo sopperisce alla mancanza di coglioni di chi comanda in quel momento, e spala da solo il fango che intasa il ponte, portato dal torrente in cui scorre una specie di melma marrone chiaro che sembra viva. Forse lo è davvero. L’altra scuola, quella moderna, è stata trasformata in un ospedale da campo.

 

Sono qui coi piedi nel fango da sette ore. Mi sembrano dieci anni. Avrò detto dieci parole. E trecentomila bestemmie. Spunta il sole. Poi piove. Poi non si capisce. Non si può telefonare, non si possono ricevere telefonate. Fuori dal mondo, dallo spazio e dal tempo. A Giampilieri la realtà si è fermata, ha mutato volto. Gli occhi di chi ha perso qualcuno o qualcosa, pressochè tutti in paese, sono vuoti. Il cervello ha deciso di non volere processare più altre informazioni, perchè quando è troppo è troppo.


Quanti morti sono? Non si sa, notizie ufficiali non ce ne sono. Che cazzo stanno facendo in Prefettura? E’ arrivato Bertolaso? E il presidente della Regione? Dal Comune che dicono? E dalla protezione civile regionale? Ma è possibile che ancora non sia arrivato un mezzo qui sopra? Con cosa cazzo li troviamo i dispersi, col bastone da rabdomante? E come scaviamo tra le macerie, con le pale? (Si, con le pale. Con le fottute pale). Arrivano volontari. A decine. Studenti, lavoratori, disoccupati, fisicati e mezze seghe, vecchi e giovani. Si mettono a disposizione. Le forze armate fanno quello che possono, visto che la catena di comando è inesistente. 


Le ore passano. Il sole è andato via, sta calando il buio. “Io sono esausto, e tu?”, domanda Michele. “Minchia, pure io”. Scendiamo, in uno stato a metà tra l’allucinato e l’onirico.

Incrociamo un collega, uno di quelli che il culo se l’è fatto davvero in quei giorni, Emanuele Rigano, allora di Tempostretto: “Quanto manca per Scaletta?” “Cinque o sei km”. “Ci arrivo prima che faccia buio?”.  Ci arriverà. A piedi, nel fango. Ci salutiamo. Torniamo a scendere. Quasi un’ora di camminata, e non ne ricordo nemmeno un minuto.

Non so come, mi ritrovo in redazione, che usualmente il venerdi è deserta e invece quel pomeriggio ci sono tutti. Ho acqua fino al midollo spinale. Fango dappertutto, incrostato nei jeans, negli anfibi, nella cerata, in anfratti che non ricordavo manco di avere. Stanchezza che fa a botte con l’adrenalina.  Sensazione di aver vissuto qualcosa di epocale, di apocalittico, anche se non ho avuto la forza di capire cosa. Accendo il computer, butto giù qualche appunto, un paio di note, scarico le foto. “Mi sa che la prossima settimana dovremo farci dieci pagine”, dico al mio capo Daniele De Joannon. Al bar di sotto, i baitti con le loro maledette automobiline sparano Ghostbusters a volume da crocifissione immediata. Chissà perchè la scelta bizzarra del brano. Forse per i bassi all’inizio, che mettono alla prova l’impianto stereo. Messina ancora non si è resa conto di quello che l’ha colpita. Persino io, che ero lì, stento ancora a crederci. Spengo il computer, saluto.

Torno a casa. Tremo, e non solo per il freddo nelle ossa. Anzi si. Quel freddo nelle ossa che non è solo quello dell’acqua e del fango.
Quel freddo nelle ossa di quando la morte ti ghermisce la caviglia.
Bicchierino. Altro bicchierino. Musica rumorosa, che così non penso. Ancora un bicchierino. Niente.

Quello che ho visto, quello che ho annusato, quello che per ore il mio cervello si è rifiutato di elaborare è qui dentro, che preme per uscire.
E’ l’allucinazione e la rabbia, lo sgomento e l’incredulità, la paura e il disgusto. Sono le 23.45 di venerdi 1 ottobre 2009, il nuovo numero del giornale non andrà in edicola che tra una settimana. Non ce la faccio ad aspettare. Accendo il computer. E inizio a scrivere.

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