«Da qualche tempo provo una certa ritrosia a scrivere su Facebook, e commentare gli eventi, locali o nazionali e qualche volta anche planetari, dei quali i media mi tengono regolarmente al corrente.

Mi sono dunque interrogato su questa mia ritrosia, starei per dire saturazione, ad esprimere un parere su questa o quella vicenda che a me, come a tanti altri, provoca di volta in volta commozione, pena, indignazione, rabbia e una gamma variegata di sentimenti analoghi.

Potrei giustificarmi citando l’Ecclesiaste (Qo 3,1–11):

Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo / C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,/ un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato. / Un tempo per uccidere e un tempo per curare, / un tempo per demolire e un tempo per costruire. / Un tempo per piangere e un tempo per ridere, / un tempo per fare lutto e un tempo per danzare. / Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. / Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via. Un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. / Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?

Ma la cosa non mi soddisfa. Allora è forse più ragionevole pensare a una sorta di stanchezza, certamente derivante in parte dall’età, ma anche e forse soprattutto da una raggiunta consapevolezza, che cioè il tempo sia una cosa troppo preziosa per poterlo impiegare seguendo quotidianamente e ossessivamente le follie dei nostri tempi bui. Esistono per grazia di Dio tante altre attività, dalla lettura alla scrittura, dalla meditazione alla preghiera, dal dialogo vis a vis al servizio, dal passeggiare senza meta al godersi lo spettacolo della natura, al coltivare gli affetti, al guardare negli occhi le persone care… Insomma davvero tante altre attività preferibili alla permanenza in questo Circo Barnum.

Avevo iniziato a scrivere su Facebook all’inizio dell’avventura accorintiana, quella che per me rimane ancora una breve stagione primaverile per questa povera città. Niente mi lascia supporre che ne possa tornare una analoga.

Quindi smetto. Non cesso però di voler bene a chi me ne vuole! E un po’ anche agli altri…..

Adieu!»

Con queste parole circa un mese fa mi sono congedato da Facebook. In effetti quell’Adieu! era esagerato, come ho chiarito in seguito si è trattato di un congedo relativo, essendomi riservato il diritto di continuare a postare qualcosa di mio. Qualcosa, però, che non fosse in alcun modo veicolato da parole, ma solo da immagini o suoni. Da allora in poi infatti mi sono ripromesso di non intervenire più attraverso considerazioni di vario genere su quanto vedo accadere intorno a me, o dentro di me, limitandomi a “comunicare” con immagini fotografiche, riproduzioni di opere d’arte, brani musicali o documenti audiovisivi di vario genere. Di parlare cioè (ma con lentezza, ogni tanto, quando mi va…) attraverso voci e sguardi, tornando a una dimensione che scopro a me congeniale, quella del silenzio.

A cosa si deve tale congedo? Come spiegavo, certo, a una stanchezza a misurarmi – molto più spesso di quanto mi accade nella vita reale – con la stupidità, l’ottusaggine, la malafede di un certo numero di persone in gran parte non conosciute direttamente, e quindi all’aver realizzato con stupore, e anche stizza, di stare impiegando malamente il tempo.

Ma non solo di questo si tratta. Il web, o meglio questo uso del web cui i social ci hanno assuefatti, amplifica a dismisura gli orrori del nostro tempo, le brutture che la popolazione del pianeta ogni giorno ci offre, per il fatto che tali orrori, tali brutture, se in alcuni suscitano ripulsa e salutari reazioni anticorpali in molti altri stimolano viceversa assuefazione e passiva acquiescenza, quando non addirittura entusiastica e cinica assimilazione e bestiale imitazione.

Si può misurare la portata di tali dinamiche per entro un ventaglio impressionante di situazioni, dal fenomeno migratorio alla percezione delle povertà, dai femminicidi alla difesa dei beni comuni, dalla sfera politica a quella privata, dalle faccende corporee a quelle spirituali…

Da qui, una sorta di orrore, di ripulsa verso una rappresentazione della realtà che forse non è distante dalla realtà effettiva ma certamente non incoraggia a porsi nella condizione, eroica per i nostri tempi, di decidere di non rassegnarsi allo status quo, di non crogiolarsi nell’illusione di vivere nel migliore dei mondi possibili. Non favorisce insomma la scelta, inconsapevole o deliberatamente assunta, di farsi ammutinati rispetto a tale andamento della nave comune.

Uso il termine ammutinati perché tengo sempre presente a me stesso l’aforisma di Søren Kierkegaard: “La nave è ormai in mano al cuoco di bordo. Ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani”. E veramente la nostra nave comune mi appare ormai governata da cuochi, mi basta accendere il televisore e sentir parlare un Salvini o un no-vax di quelli duri e puri o la faccia giuliva di un Renzi che parla di rinascimento a proposito di stati canaglia, e financo uno dei loro tristi epigoni locali.

In conclusione, giusto per tentar di dare un morso al nocciolo del problema e tenendo in conto ciò che teste pensanti come Eco o Galimberti hanno già espresso, a me pare che i social abbiano sdoganato coloro che, pur non avendo mai sviluppato anticorpi contro l’esistenza (anticorpi che avrebbero loro consentito di conferire un qualche senso al proprio essere-nel-mondo) hanno trovato intere praterie sulle quali far cavalcare le proprie povertà, sempre più convinti di essere depositari di merce preziosa da far circolare.

In queste praterie ho deciso di non più addentrarmi, per il troppo polverone che in esse si solleva. Altri hanno fatto prima di me questo passo, qualcuno poi, troppo narciso, è ripiombato nel vizio.

Io prego, e spero, di non più ricaderci.

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