Stimo Pietro Saitta, i cui articoli leggo sempre con attenzione, trovandomi sempre in sintonia con quanto lui scrive.

Una sintonia durata fino ad oggi, quando leggendo il suo recente contributo sulla telenovela della movida (che brutta parola!) messinese, messa in crisi da una recente ordinanza (adesso pare in fase di aggiustamenti), mi è parso che qualcosa non quadrasse nel quadro generale che lui ci propone come sfondo della vicenda.

Saitta deplora l’ordinanza del Comune, che benché dall’Ente motivata dietro l’apparente spinta del Covid sarebbe in realtà occasionata dalle rimostranze di quelli che lui definisce “i comitati del sonno eterno”, un’immagine poetica volta a designare ricchi borghesi proprietari di lussuose residenze in zone centrali della città, turbati e infastiditi dalla presenza chiassosa di un pubblico di sottoproletari desiderosi di convivialità e di sfoghi notturni per compensare i malesseri della propria subalternità.

Contro questo ceto di snob annoiati e nostalgici di una città a loro esclusiva misura Pietro Saitta si scaglia, preconizzando l’insorgere di una nuova lotta di classe, tra coloro che difendono a spada tratta spazi urbani da sottrarre alla barbarie e coloro (gestori e fruitori di locali) che intendono riappropriarsi a ogni costo di tali spazi permeandoli delle proprie svariate forme di “antropizzazione”.

Saitta ci presenta un quadro della realtà a mio modesto modo di vedere non corrispondente a ciò che in effetti si è determinato a Messina. Cercherò di spiegarmi, premettendo che: a- non nutro alcuna simpatia verso le ordinanze “poliziesche”, che anzi mi appaiono sempre come l’altra faccia della medaglia di un’impotenza istituzionale; b- non abito al centro di Messina, da sempre anzi ho scelto di vivere in periferia perché da sempre ho avuto chiara evidenza che qui la qualità di vita sia migliore; c- non nutro sentimenti nostalgici di sorta verso un tempo in cui le forme di socialità e di divertimento comunitario fossero distribuite secondo rigidi steccati sociali. L’idolatria verso una città di tal fatta mi è estranea.

Premesso questo, a me pare che il quadro che Saitta ci presenta si alimenti in gran parte di motivazioni ideologiche piuttosto che da un’analisi sociologica della realtà, cosa quest’ultima che in genere a lui riesce in forma egregia.   

Che senso ha parlare di un “conservatore, piccolo o grande-borghese, dalla casa di lusso in centro”, di un “possidente di appartamento storico di lusso nel centro” come mandanti di un’azione punitiva contro “una massa di soggetti disoccupati, precari e spesso ben poco corrispondenti al profilo di ricco gagà taorminese degli anni sessanta che lor signori hanno in mente”? Come credo si possa intuire, in centro vivono anche molti anziani, parecchi dei quali reclusi in casa da disabilità di vario genere, il cui unico desiderio è quello di trascorrere in serenità la vita domestica, possibilmente potendo andare a dormire in orari accettabili. Forse, caro Saitta, questa presunta “guerra di classe” non è una guerra contro i giovani, né tantomeno contro esercenti che esercitano in pieno diritto la propria attività commerciale. Forse è il tentativo di porre dei limiti – a me pare sacrosanti – a modalità di esser giovani e di gestire locali d’intrattenimento poco consapevoli delle esigenze di altri cittadini di condurre una vita scandita da orari diversi. Una società civile non potrebbe tener conto delle diverse esigenze, operando per tenerle in virtuoso equilibrio senza deprimerne alcuna?

E evidente che qui non si intende stigmatizzare gli assembramenti in quanto tali. Ce ne fossero, anzi, di assembramenti di gente che chiede lavoro, giustizia sociale, tutela dei beni comuni! Quello che a me non pare per nulla democratico è un esercizio della libertà che se ne stracatafotte della libertà altrui, incapace di misurare i confini, e i limiti, della propria e delle altrui libertà.

Afferma Pietro Saitta che “il sonno dei pensionati e dei garantiti – di chi vuole una città sonnolenta – vale tanto quanto il diritto dei disoccupati e precari di stare fuori e prendere una birra d’asporto. Oppure di consumarla fragorosamente tra quei famosi dehor”. E aggiunge: “Riscoprire la politica significa dire che la città è lo spazio della diversità e che se la casa in centro è invivibile, che gli abitanti facciano le valigie e traslochino”.

Cosa obiettare a tali affermazioni? Forse solo questo: che se la diversità diviene spregio di regole (regole ragionevoli, non poliziesche) più che di diversità si dovrebbe forse parlare di devianza…

Io mi trovo da parecchi anni a frequentare la città di Budapest, una capitale splendida a dispetto dell’orrido Orban. Ebbene, a Budapest mi capita spesso di passare qualche ora, serale o notturna, in uno dei numerosi Ruin Pub, sorti quasi tutti all’interno del quartiere ebraico, nel VII Distretto. Si tratta di strutture babeliche ospitanti all’interno bar, angoli di ristorazione, spazi destinati all’arte o alla musica, nate dall’occupazione, naturalmente contra legem, di locali abbandonati e in disuso da parte di gruppi giovanili che con il tempo hanno iniziato ad arredarli con materiale di recupero provenienti dalle discariche e con pitture, murales, sculture, installazioni realizzate da artisti di strada. In questo modo vecchi spazi abbandonati sono stati rifunzionalizzati divenendo luoghi di incontro e divertimento, dove di giorno è possibile rilassarsi bevendo un drink e la sera sorseggiare una birra ascoltando musica di ogni genere.

I giovani ungheresi hanno così creato con la loro inventiva (questa si, politica!) un Genius Loci, riscattando dall’insignificanza strutture che così sono state tra l’altro sottratte alla speculazione edilizia. E nessuno si azzarderebbe oggi a toccarle, perché sono diventate una delle maggiori attrazioni turistiche della città.

Altra considerazione. Posso capire che in una città liquida come Messina gli orientamenti sociali mutino a velocità supersonica, e che improvvisamente a gran parte dei messinesi risulti assai smart non indossare la mascherina, ma a me continua a fare un po’ senso vedere affollamenti di persone prive di protezione stare a poca distanza l’una dall’altra senza alcuna precauzione, e tutto questo dopo che per settimane mi sono sorbito il “dove cazzo vai” del sindaco propagato da un’auto che percorreva la città in cerca degli eventuali ammutinati. Una scena da Fahrenheit 451.

Si ritiene che il Covid non costituisca più un pericolo? Altrove non ne sono tanto convinti. Sono consapevole che questa pandemia ha suscitato provvedimenti a tratti estremi e inopportuni, solleticando tentazioni e velleità autoritarie, ma da questa constatazione ce ne corre ad assumere narrazioni analoghe a quelle adottate da Bolsonaro in Brasile o da un guitto come Salvini qui da noi. Il Covid una montatura? Andatelo a dire ai parenti dei morti al Pio Albergo Trivulzio, o a quelli degli anziani anch’essi deceduti nelle nostre case di riposo!

Alquanto mistificante mi pare infine la narrazione di una città col suo centro, Piazza Cairoli e tutti i sacri luoghi deputati riservati alla Messina Bene (sic) e le altre manifestazioni di massa destinate ai ceti popolari relegate nei villaggi o consentiti semel in anno.

Messina, contrariamente a quanto si possa credere, ha sempre offerto spazi di socialità a tutti i suoi abitanti, indistintamente e in modo affatto trasversale. La circostanza storica che alcuni messinesi, appartenenti non tanto a un ceto egemone quanto a un gruppo intellettuale uscito fuori dal fascismo e desideroso di respirare libertà di pensiero, abbiano scelto alcune zone deputate del centro per incontrarsi (una per tutte, il Bar Irrera) non significa che altri spazi della città, anch’essi centrali, siano stati preclusi al “popolo” (si licet utilizzare ancora tale termine). L’esempio che mi viene in mente è proprio quello di Piazza del Popolo. Senza scomodare le adunate politiche, se torniamo indietro nel tempo troviamo ad esempio che in prossimità di questa piazza già nell’immediato dopoterremoto si svolgeva il principale spettacolo dell’Opera di Pupi di quel tempo, con i mitici pupari Ninì Calabrese, Giuseppe Grasso e Rosario Gargano.

Per concludere. Che ci si confronti sui problemi dell’intrattenimento a Messina in questa difficile e delicata fase di progressivo arretramento della pandemia è cosa buona e giusta (per inciso, mi piacerebbe che analoghe dialettiche si dispiegassero nei confronti delle scuole, dei cinematografi, dei teatri). Ma che lo si faccia col buon senso e la volontà di dialogo che dovrebbero caratterizzare una città degna di questo nome, ecco, questo a me pare doveroso.

 

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