Se il Terremoto del 1908 ha rovinosamente depauperato la città dalla preziosa memoria storica contenuta nel suo impianto urbano, Gino Coppedè ha contribuito a ridarle un’anima, indicando la strada per un nuovo stile architettonico. Per Manfredi Nicoletti, è infatti l’unico italiano, dal Rinascimento in poi, ad essere identificato in uno stile: lo stile Coppedé.

L’architetto fiorentino fu appunto il primo, nella ricostruzione postsismica, a reinterpretare sullo Stretto i movimenti modernisti che si andavano diffondendo in Europa (e che in alcune zone erano già diffusi da qualche decennio). Se in Francia c’era l’Art Nouveau, in Germania lo Jugendstil, in Austria la Secessione e in Inghilterra lo Stile Liberty, la declinazione messinese indicata da Coppedè prende il nome di Eclettismo. Un florilegio di elementi stilistici presi dal gotico fiorito, dal barocco, dal manierismo, dal moresco e perfino dall’architettura assiro-babilonese e greco classica. Un insieme di stucchi, impasti cementizi, graniglie mosaici, decori e pitture murali che trasformano l’architettura in un’arte applicata. L’Eclettismo è tutto fuorché un patchwork di stili. È piuttosto l’esaltazione di ogni elemento, inserito in un contesto apparentemente alieno eppure perfettamente armonico.

Quando arriva per la prima volta a Messina, nel 1913, Gino Coppedè è nel pieno della sua maturità artistica. A portarlo in città sono i genovesi fratelli Cerruti, per i quali aveva già lavorato a Genova, e che gli commissionano alcuni edifici nella città dello Stretto, dove avevano deciso di investire nella ricostruzione.

Per i Cerruti, realizza, tra gli altri, l’omonimo palazzo che sorge tra la via Lepanto e la via Primo settembre (che fa da sfondo alla statua di Don Giovanni d’Austria, di cui abbiamo parlato qui) e il Palazzo del Granchio, già sede del Banco Cerruti, che si affaccia, così come il fantasmagorico Palazzo Magaudda, sulla Chiesa dei Catalani. Non possiamo inoltre non ricordare il palazzo dello Zodiaco, che affaccia su Piazza Duomo, lato campanile, o il palazzo Tremi, di via Centonze, ben riconoscibile per i medaglioni con le teste di Medusa.

Le innovazioni che Coppedè porta in città non sono solo stilistiche, introduce infatti, tra i primi, tecniche antisismiche e l’uso del cemento armato, offrendo alle agiate famiglie messinesi abitazioni, non solo eleganti, ma anche sicure e durature.

Non è possibile affermare con certezza quante e quali siano le opere a lui attribuibili nei dodici anni, dal 1913 al ’25, di sua incessante attività in città. Infatti, se, da un lato, il caos connesso alla ricostruzione non ha sempre permesso di risalire ai progettisti (e al loro specifico ruolo nella complessità della realizzazione di un edificio), dall’altro bisogna riconoscere che i meriti di Coppedè non si sono limitati alla sua attività diretta, ma anche alla sua influenza verso un’intera generazione di architetti e ingegneri a lavoro per la riedificazione della città devastata dal sisma. Una mappa, per quanto possibile attendibile, delle opere è la seguente:

Visualizza a schermo intero

Tratto distintivo di questi edifici sono i decori geometrici, le merlature di ispirazione medievale, le bifore neogotiche, gli archi acuti o a ferro di cavallo, gli elementi floreali e faunistici da cui, molto spesso, prende il nome l’intero palazzo. Con la ricerca del fantastico e dell’esotico, Coppedè sembra quasi voler restituire un passato fiabesco alla città che lo aveva perduto.

Nello stesso periodo in cui è impegnato a Messina, Coppedè, è incaricato a Roma di urbanizzare un intero rione, oggi universalmente conosciuto come “quartiere Coppedè”, immortalato come set all’aperto dalla cinematografia di Cinecittà, sede di prestigiose ambasciate e meta continua di turisti. Se a Roma, così come a Genova e Firenze, Coppedè è giustamente celebrato, a Messina le sue opere sono spesso oggetto di sopraelevazioni sconsiderate, restauri controversi, degrado e fatiscenza. Ma ancor più doloroso, probabilmente, è l’assoluto oblio che la città riserva al grande architetto fiorentino. Anche per lui, non c’è una targa, non c’è una via.

FiGi