Il primo giorno più importante della vita dovrebbe essere, a rigor di logica, il primo. Il nostro è stato nello stesso posto, l’ospedale Piemonte, non distante dalle nostre case.
Così vicini, eppure ancora così lontani.
Di quella Messina conserviamo, con qualche anno di distanza tra noi, a distanza di anni, album pieni di foto dai colori sgargianti o appassiti, dai bordi spiegazzati, a volte con facce e storie che si sono persi, e altre invece a ricordarci lacrime e risate che possiamo sentire benissimo anche adesso.
Sono foto di Passeggiate al Mare, di Baby Park ormai chiusi, di Ville Mazzini con le sue oche e gli animali che si nascondevano, di noi infilati in bomberoni colorati con le guance arrossate, oppure al mare – sempre al mare – con la pelle ambrata, il sorriso pieno – così pieno che avremmo provato una vita a riaverlo così – i capelli di sale, le merende della mamme in mano – loro sempre presenti, lì in ogni abbraccio, ogni caduta, sui marciapiedi del viale che era molto diverso da quello di ora, con una forza ed un coraggio che nemmeno gli anni e le battaglie avrebbero mai smorzato.
E poi foto di locali che hanno chiuso da anni ormai, di quando la città era gonfia di speranza ed innocenza, di sole riflesso da occhiali con montature allucinanti, di auto e fioriere e festoni e gente vestita come fosse sempre una grande occasione quella – e forse, in fondo, lo era veramente.
Dopo le foto ci sarebbero stati i primi filmini – quelli in super 8, certo, e poi gli altri, con telecamere pesantissime a registrare ogni passo, ogni caduta dalla bici, ogni dente lasciato per strada. Video di compleanni e matrimoni, di comunioni e semplici domeniche in famiglia, di viaggi e di grandi sogni in una città che apriva buffi e pensava che non sarebbe finita mai, che credeva che il pezzo di carta del figlio avrebbe cambiato finalmente tutto, che sentiva che le promesse sarebbero state esaudite.
Quei video, per ironia, sarebbero finiti dimenticati in armadi, con formati ormai impossibili per le nuove tecnologie – e nel frattempo la città sarebbe cambiata ancora, noi saremmo cresciuti, il Piemonte sarebbe stato chiuso e riaperto e chiuso e gente sarebbe nata e altra se ne sarebbe andata – a volte per destino, altre per incuria ed ignoranza – e il pezzo di carta sarebbe rimasto tale mentre la città veniva consegnata alla cerchia ristretta dei figli di, in cerimonie piene di sorrisi e colorate ma che, per qualche motivo, sembravano più sbiadite e vecchie delle nostre da piccoli.
Nel frattempo, mentre quelle cassette prendevano polvere, le Ville Mazzini, Le Passeggiate al Mare, i Baby Park – tutte quelle infanzie piene di odori, di incontri, di abbracci, di aria e sole e vento buono – tutto sarebbe stato messo in vendita, chiuso, abbandonato, appaltato, asfaltato, scambiato sottobanco, col prestigio per i soliti che cresceva a dismisura in una città che aveva smesso di avere orgoglio e cercava solo un favore – con grandi inchini e ossequi – e per tutti gli altri il panorama sarebbe stato quello della Marittima, della stazione Centrale, degli imbarchi, e poi ancora alle partenze dell’aeroporto di Catania – col profilo di città a rimpicciolirsi sempre più alle nostre spalle, mentre i ricordi si allargavano nella nostra mente.
E così che io e tua madre ci siamo trovati, tutti e due di Messina, a vivere in Australia.
Così lontani, eppure così vicini.
Ci sono altri giorni importanti nella vita oltre il primo, naturalmente.
Uno di questi è stato, per me, il 10 maggio 2013, quando al settimo piano dell’ospedale Royal Prince Alfred di Sydney, ho rischiato che la mia vita finisse all’improvviso, prima che quello che il primario di allora descrisse come miracolo, mi riportasse in mezzo ai vivi.
Un altro di questi, che deve ancora arrivare, sarà il 29 febbraio 2024, quando al terzo piano dell’ospedale Royal Prince Alfred di Sydney, tu comincerai la tua, di vita.
Quattro piani e undici anni sono ciò che ha separato la fine da un nuovo inizio, così come questi 15.000 chilometri sono quello che ci separano – solo fisicamente – da casa a Messina.
Tutto questo – anni, piani, chilometri – si viene a mischiare adesso, come una sorta di cerchio che si chiude – qualcosa iniziato come un Big Bang tanti anni fa, in un altro luogo, e che ora troverà in te la sua naturale prosecuzione – il suo compimento – la sua prossima tappa in questo mondo piccolo, in questa nostalgia irrisolta, in questa speranza che non lasciamo mai andare via, e di cui ti parleremo quando ti spiegheremo foto e video di un’altra epoca – sperando che tu e tutti gli altri arriverete dove non siamo mai arrivati noi.
Tutto questo mi fa pensare che anche dalla situazione più compromessa può venir fuori qualcosa da riempire il cuore – e questo vale per te, e forse anche per la mia città luminosa e disastrata.
Che tu possa portarti dietro il sole e il mare, figlio mio, e percorrere fino in fondo tutte le strade.
Noi non ti faremo mai mancare il nostro amore.
Marco Zangari © 2024