Ci sono cose alle quali, pur vivendo da anni dall’altra parte del mondo, non ti abitui mai del tutto. Una, per esempio, è quella del volo di 22 e passa ore per tornare a casa: lo puoi fare mille volte, puoi imparare trucchi e modi per gestirla meglio, ma ti sembrerà sempre un’epopea enorme e sproporzionata alle tue energie.
Un’altra è svegliarti in piena notte per seguire il calcio. Per un povero fesso come me, che ancora segue il giuoco del pallone anche nell’altro emisfero, è un prezzo da pagare per poter seguire le partite (prima che si svegli e social media, amici in chat e gente incontrata per caso per strada possano spoilerare com’è andata). Mi sono fatto Europei e Mondiali che sono diventate lunghe marce di morte, dove pian piano perdevo i miei compagni di sventura, trascinati dalle sirene del letto e dall’incomprensibile bisogno di mettere insieme più di 4 ore di sonno per notte. Agli ultimi Mondiali, arrivati ai quarti avevo ormai le visioni di Fantozzi e mi era comparso diverse volte Ronaldo Nazario da Lima con una lunga veste, la corona di fiori e la mano atteggiata a perdono per questo povero miscredente morto di sonno.
Col tempo ho mollato parecchio, vuoi per l’età (“Non gliela posso, stavolta non gliela posso”), vuoi perchè il mio lavoro di adesso ha bisogno di tutti i miei neuroni riposati (più o meno). Una volta mi era più facile tirare sveglio fino alle 4 e poi andare a dormire dopo la partita: adesso probabilmente mi addormenterei durante l’inno.
Le gioie dei 40 anni suonati.
Il 22 agosto, però, non ho potuto dire di no. Se c’è una cosa buona nell’essere interista in Australia, è che non ti capita spesso di doverti svegliare per qualche finale o partita decisiva. Lascia che sia lo juventino a farsi la levataccia: tu resti a goderti il letto, sognando ancora che l’anno prossimo sarà quello buono.
Le scuse sono finite con la finale di Europa League col Siviglia. Il fatto che qui sarebbe stato all’alba di sabato ha praticamente distrutto tutte le scuse che mi ero preparato. Troppo presto per la chiesa, troppo tardi per un rave.
Stavolta mi toccava.
Quando la sveglia suona, è ancora notte fonda. Perfino quei mattinieri che sono gli australiani, che già alle sei di sabato sono pimpanti e strafatti di frappuccino, se ne stanno beati a smaltire la sbornia del venerdì. Per strada ci sono solo io e la notte di Sydney. Ne approfitto per auto-fomentarmi con qualche coretto che mi impedisca di addormentarmi alla guida.
Arrivo nel luogo d’incontro con l’Inter Club in ritardo. Per fortuna il parcheggio non è un gran problema, a quell’ora. Mollo la macchina e comincio ad infilarmi giacche e sciarpe quando mi si avvicina una tizia, sguardo svanito nel nulla, denti a rosicchiare il labbro inferiore.
«Ehi, sai mica a che ora passa l’autobus?»
Vorrei dirle che a quell’ora della notte non sono nemmeno sicuro di chi io sia.
«Sinceramente no, mi spiace»
«Mi sa che non passa più…» fa lei, mentre io, senza voler essere cafone, continuo a prepararmi e mi allontano dall’auto.
«Non è che mi daresti un passaggio?» e indica un quartiere che si trova praticamente dall’altra parte della città. Il suo volto non ha mai cambiato espressione.
«Guarda, mi spiace, non posso…» e poi, mosso dallo spirito samaritano di chi sa quanto il venerdì sera di Sydney possa essere un’esperienza alla “Paura e delirio a Las Vegas”, le dico, «se vuoi, posso chiamarti un taxi?»
«No no, grazie» dice, senza neanche più guardarmi. «Un passaggio me lo daresti?»
Sento movimento nella sede del Club. «Scusa, devo scappare. Take care, eh»
Corro dentro, inciampo nella sala buia.
«Oh, hai fatto appena in tempo per il fischio d’inizio» mi fa Paolo. Mi siedo dove capita e comincio a seguire la partita. Il ricordo della tizia svapora subito e nella mente mi gira solo la frase a caratteri cubitali HO SONNO HO SONNO HO SONN…
Dopo cinque minuti Lukaku viene buttato giù in area. Rigore.
A questo punto ci svegliamo tutti di colpo. In piedi, aspettiamo la rincorsa, il tiro, la palla che va in rete. Cominciamo ad urlare, a saltare per aria, ad abbracciare estranei a caso (benvenuto distanziamento sociale). Solo ora mi rendo conto che, con la sala buia, nemmeno ci eravamo visti tutti in faccia. Dopo il rigore, sembra che ci conosciamo da una vita.
E la vita dell’interista non è mai stata semplice. Ci siamo ritrovati con una squadra tra le più ricche e conosciute, e sembra che stiamo sempre scontando qualche peccato calcistico di una vita precedente. Ogni volta che c’è un trionfo, sembra che debba essere sempre pagato con sette anni di guai, in una tradizione vagamente cattolica. Per ogni Fenomeno che abbiamo visto, ci sono stati una sfilza di Nagatomi, Rambert, Vampeti e Joao Marii che non finisce più. Mi incuriosisce poi l’idea di aspettativa di vita del tifoso che sembra avere la dirigenza nerazzura: è come se, per loro, un tifoso interista viva necessariamente sempre oltre i 110 anni. Dal loro punto di vista, quindi, una finale ogni 10 anni va benissimo, è perfettamente in media.
La fonte dell’immortalità è diventare interista.
E da interisti che ci ricordiamo bene il 5 maggio, lo Schalke, il Lugano (forse più delle vittorie, sempre per quello spirito cattolico di espiazione), non ci scomponiamo troppo quando de Jong pareggia i conti subito dopo per il Siviglia. Un’ondata di insulti e scazzi vari attraversa la sala buia e gelida, ancora avvolta nella notte, e ricominciamo a soffrire.
Anzi, ci sentiamo quasi più a nostro agio così.
Mi rimetto comodo e ritrovo tutto quel che mi mancava del guardare le partire insieme (che sia allo stadio o in una sala gelida nella notte di Sydney, cambia davvero poco). Ci sono alcune cose che ti perdi semplicemente a guardartela da solo sul divano. I personaggi immancabili.
C’è quello che deve andare per forza contro gli altri -a volte anche contro il senso comune- solo per il piacere di farlo: quindi ogni fuorigioco invocato dagli altri per lui non c’era, ogni fallo che gli altri reputano finto per lui è da cartellino rosso, e così via. Nei casi peggiori, c’è qualcuno che gli si avvicina minaccioso, specie se la squadra perde, a chiedergli per chi minchia faccia il tifo lui.
C’è quello che, quando si vince, sente la morte aleggiare sopra le teste degli altri tifosi -così che, quando si perde (e l’Inter va in svantaggio alla mezz’ora), per lui è gran festa. Può scatenare tutta la tiritera di insulti contro la società, i giocatori, l’allenatore, i magazzinieri, il team medico, le mogli dei calciatori, le loro mamme, le loro zie, il destino stesso che ha deciso che, con tutte le squadre al mondo, lui tifasse proprio quella là. Non è forse un caso che l’Inter riesca a pareggiare quando lui è in bagno. Al suo ritorno, gli viene chiesto gentilmente di restarci, la prossima volta, che magari si porta a casa la Coppa stasera.
Il gruppo si sposta e si coalizza a seconda dell’umore generale. Per la prima mezz’ora, quando le cose girano bene, si guarda alla squadra nel complesso, si urla insieme, si canta insieme, non esiste il singolo giocatore ma il famoso collettivo.
Quando si perde, è tutta un’altra storia. Il malumore si impadronisce delle nostre teste piene di sonno, e dobbiamo prendercela con qualcuno. Il più gettonato della serata, neanche a dirlo, è il povero Gagliardini, al punto che quasi sembra che ce li abbia fatti lui, i due gol del Siviglia. Il tifo irrazionale, umorale, oltre ogni logica e oggettività.
Quanto cazzo mi era mancato.
Neanche dopo il pareggio tempestivo di Godin sembrano placarsi le ire dei tifosi verso due o tre soggetti in campo. E’ il segnale che la paura si sta insinuando nelle nostre teste strappate al letto. E’ il segnale che ci stiamo ricordando di essere interisti.
Arriviamo all’intervallo e ci accorgiamo che non solo è ancora buio fuori, ma fa anche un freddo della madonna. Leggeremo più tardi che questa è stata una delle giornate più fredde dell’anno a Sydney, con nevicate tardive ad alta quota.
Ecco quello che facciamo per il calcio, dall’altra parte del mondo.
Ci proviamo a riscaldare con caffè (che un malcapitato sforna a decine per vederli scomparire immediatamente e sentirsi chiedere un bis tra le bestemmie) e con muffins (niente cornetti, neppure a Little Italy).
Stringendoci nei giubbotti e nelle felpe, commentiamo i timori della combo gelo più caffè caldo (e le sue nefaste conseguenze) e tiriamo fuori i solit luoghi comuni rassicuranti di quando la partita non sta andando come speravamo: eh è dura, si soffre, lottiamo, c’è sempre tempo.
Al ritorno in sala siamo più svegli, più energici anche, ma anche più preoccupati. Il Siviglia fa la sua partita, senza guizzi particolari, l’Inter arranca. Io mi rendo conto che non ne conosco molti qui dentro, ma è come se ci conoscessimo tutti.
E’ questo lo scherzo che ti fa il calcio, a qualunque latitudine lo guardi.
Perchè il calcio è di chi lo ama.
Naah, scherzo, il calcio è degli emiri, delle multinazionali e dei presidenti stronzi.
Noi però ci sollazziamo comunque a guardarlo.
E soffriamo, cazzo se soffriamo. Quando Lukaku si mangia il 3 a 2, vola qualche sedia mentre dalle nostre bocche escono santi e aliti bianchi nell’aria ghiacciata del mattino. Le sedie diventano scomode, è il segnale. Tutti in piedi, si va avanti finchè si può.
Non si va avanti troppo, perchè per una beffa del destino (a cui i nerazzurri non sono nuovi) il Siviglia va in vantaggio nuovamente per autogol del giocatore più prolifico e decisamente più forte di questa squadra. Il nostro debito con gli dei del calcio segna un’altra tacca, ma è ben lontano dall’essere estinto.
Mancano 15 minuti, e noi cominciamo a sederci e metterci in piedi come in un balletto che serve più a combattare il freddo che ad incitare una squadra lontana quindicimila chilometri.
Occhio al cronometro mentre gli spagnoli perdono tempo e i primi raggi di un sole timidissimo passano attraverso i pesanti tendaggi della sala. Quando Gagliardini finalmente esce, il pubblico in sala tira un sospiro di sollievo, ben contento di potersi ora dedicare al 100% alla nobile arte della bestemmia calcistica. Per interi attimi sembra di essere in un’osteria veneta, in una piazza della Bassa Bergamasca, insomma ovunque tranne che in quartiere non lontano dal centro di Sydney.
Il ragazzo di prima va in bagno di nuovo, ma stavolta temiamo non funzionerà.
Come spesso capita all’estero, la connessione salta e accumuliamo ritardo rispetto alla partita reale. Immancabile, arriva il solito tizio che si attacca alla radiolina (dal suo smartphone) e prova un piacere perverso nello smontare le nostre ultime, debolissime speranze.
Fischio dell’arbitro. Sedie vuote. Macchina del caffè spenta.
Ci ritroviamo fuori, ma non per molto. Molti vanno via alla svelta, nella luce ormai sbocciata del mattino. Succede, con le sconfitte. Nessuno parla di colazione insieme, e non perchè abbiamo mogli, fidanzate e figli a casa. Quando si perde, si chiudono le bandiere e si smaltisce come si può.
“Meno male che non siamo in Italia” dice Paolo, “almeno qui non ci può rompere il cazzo nessuno”
“Certo, chi vuoi che lo segue il calcio, qui?”
Con questa pallida ricompensa, ci salutiamo. Abbraccio Alessio, altro compagno nerazzurro di lunga data. L’Uomo del Bagno passa sgommando e con “C’è solo l’Inter” a tutto volume, che squarcia l’alba di Sydney. Ridiamo mentre andiamo verso le auto.
“Cazzo che freddo” “Oggi è tosta”
“Pensare che dovevo essere lì” dice qualcun altro. Molti di noi dovevano essere lì, lì dove amici di fede calcistica diversa ci avrebbero sfottuto, dove avremmo imprecato per l’afa, dove ci avremmo brindato sopra, che il bello del calcio è anche questo.
Meno male che non siamo in Italia.
Ci salutiamo, sperando di non dover aspettare altri 10 anni, Andando in auto vedo un cartello con scritto, ARE U OK?
Non troppo, penso. E’ solo una partita, certo. Ma se fosse solo una partita, mica saremmo qui all’alba a ghiacciarci gli zebedei.
Mi chiedo per un attimo che fine abbia fatto la donna alla fermata. Se è poi arrivata lì dove doveva arrivare.
In auto attacco il riscaldamento a palla, ma il gelo è ovunque. Poi, imboccata la strada verso casa, mi trovo il sole alle spalle. Mi riscalda, mi accarezza in questo mattino storto. E’ una bella sensazione, il sole alle spalle, anche così lontano da casa.
Me lo faccio bastare.
Marco Zangari – www.marcozangari.it