L’ULTIMA COLLEZIONE INVERNALE di panche e arredi di piazza Duomo e dintorni, atterrate negli ultimi giorni sul suolo lavico della Piazza, è emblematica dell’uso dello spazio urbano pubblico messinese: la lotta sfrenata per l’accaparramento dello spazio, la bulimia di segni e stilemi e la sottolineatura marcata di ogni intervento individuale: la regola additiva contro quella qualitativa. L’opposizione si consuma solo sul tema del bello o del brutto o nella natura ingegneristica o peggio in quella di ordine pubblico, come se le belle piazze italiane fossero solo un derivato incidentale delle circolari del Ministero degli Interni in tema di safety e security.

Molte Piazze Italiane vivono una dimensione sovraesposta per il loro carico simbolico e per la loro proiezione nell’immaginario del cittadino, del visitatore, del turista e per come quell’immagine viene circuitata nei messaggi, nelle fotografie, nelle guide orientate. Immagini che tendono a fissare un dato esemplare rispetto ad una sovrapposizione di elementi complessi e stratificati che tutte insieme strutturano una piazza (per esempio la nostra piazza Duomo sembrerebbe vivere solo dell’osservazione con naso all’insù dei movimenti del Gallo del Leone e degli annessi e connessi che animano il Campanile).

Le piazze per la loro natura sono in un rapporto chiaro o sottotraccia con la struttura urbana di riferimento, con le strade e la densità del costruito; eppure le piazze in quanto diradamento del costruito, forma del vuoto ed eccezione nelle ripetizioni degli allineamenti degli edifici, si prestano anche a grandi equivoci nella loro progettazione:

  • Uno di questi equivoci è la sola idea che per fare una piazza quello che occorre è il decoro, che porta a far coincidere la piazza con l’arredo urbano, e giù allora quantità spropositate di panche, cestini, orpelli: la riflessione sullo spazio non è solamente una questione di pavimenti, illuminazione o panche;
  • un secondo equivoco è l’istallazione compulsiva di opere d’arte o presunte tali: la piazza o gli slarghi non sono semplici contenitori in cui è la scultura a dare un significato allo spazio;
  • altro equivoco è che rigenerare spazi significa fare pura cosmesi urbana: “pittare” alla maniera dei murales, decorare superfici e ornare.
  • Ancora più comune è l’equivoco di rigenerazione sociale attraverso la piazza, infatti attraverso le piazze possiamo al massimo disporre lo spazio e attendere gli avvenimenti e le relazioni, ma di certo questa epoca non consente più (ma bisogna dirlo senza fingere) di strutturarne le scelte collettive.

 

 

Da questa premessa teorica e generale e per qualcuno bislacca avviciniamoci a Messina, spostiamoci dal sempre incombente Messina com’era e dov’era e immaginiamo un futuro; sì perché una piazza storica si può riprogettare, riconfigurare ma occorre cultura e non solo capitoli di spesa e cataloghi d’arredo.

Senza fare la storia della Piazza e senza dovere trovare necessariamente l’antecedente identitario, quella piazza della Cattedrale mantiene un assetto urbano che trae dalle origini del sedime della basilica e dalla posizione della retta di via Primo Settembre con il posizionamento simbolico della Fonte di Orione; su pochi elementi netti mantiene la sua natura e memoria. Poi le varie storie e le trasformazioni urbane del piano Borzì così come il nuovo carico identitario del nuovo Campanile meccanizzato e il disegno del verde verso il Corso hanno scritto una nuova ipotesi.

Malgrado Piazza Duomo, ma sempre più D’uomo – (definizione che prendo in prestito da una mia amica-) sia la piazza e la traccia simbolica e di cerniera più importante tra vecchia e nuova città post 1908, non ha, nel corso di questi nuovi 110 anni dal sisma, guadagnato una chiarezza, d’uso una stabilità d’immagine o ancora una o più regole chiare d’intervento.

Forse perché c’è una dimensione dello spazio aperto che non può essere trascurata nell’architettura e che può essere definita il ‘significato nascosto della piazza’. 

Il teorico George Hersey sostiene che questo significato nascosto è il dialogo che lo spazio aperto ha con il suo passato remoto, cioè con i cambiamenti che nel tempo hanno cambiato l’idea della matrice originaria.

Spesso si smarrisce il rapporto con la matrice originaria e non si inventa quello con la matrice derivata. Da anni e anni si smontano e si rimontano corsie preferenziali, stazionamenti di pullman, accampamenti per tavolini o verande di ristoranti più grandi della loro superficie interna.

Un flusso continuo di tentativi senza certezze.
Poi ci sono le cose minute, gli arredi, gli orpelli, le chincaglierie, che permettono anche a chi non vive intensamente (o teoricamente) lo spazio degli invasi urbani, le ombre o le luci proiettate dagli edifici, di vivere lo spazio sedendosi, appoggiandosi, fermandosi, chiacchierando.

Tutte queste cose minute spesso vivono una loro vita separata, pensata per addizione ed indigestioni di questo o quel progettista, arredatore, artista.

Ogni amministrazione nel corso degli anni aggiunge un pezzo spesso diverso e dissonante, ogni commerciante e ristoratore intrepreta lo spazio con vari campionari di veranda e arredamento d’esterni comparto o riciclato, ogni ambulante prende posto la sera disseminando tutto lo spazio vuoto con le lucine al led per vendere merci varie, ogni tipo di chincaglieria urbana è generosamente regalata da adottatori vari che oscillano tra i colpi d’ascia delle giovani marmotte e le avventure di Indiana Jones e il Tempio Maledetto; ecco tutto questo   si riversa lì nella piazza della Cattedrale, in via Lepanto, in largo San Giacomo, in via Colombo.

La sola complessità leggibile è quella dell’affastellamento di segni e oggetti che visti tutti insieme sembrano un opera di rigattieri. La Piazza e il contorno esprimono una dinamica dello scontro degli oggetti. Chi resterà in vita tra quegli oggetti sarà testimone della scia dei reperti d’arredo passati, degli abbandoni malcelati dai vasi delle piante.

Piazza Duomo (o D’Uomo) in modo che sia chiara sia la sua importanza religiosa che quella civile, nel 2001 ebbe pure un concorso internazionale d’idee per la riqualificazione dell’invaso e l’arredo, ci fu un primo, secondo e terzo posto, il progetto vincitore dell’arch. Marco Mannino, malgrado il premio della giuria, non piacque al Committente Politico dell’epoca che pensò persino di accorpare i primi tre in graduatoria per elaborarne un quarto, insomma con quella strana modalità di ri-selezione, quel progetto non si fece, ma ciclicamente si continuarono a delimitare gli ambiti, addobbarli, arredarli, cercando soluzioni slegate, campionando risposte alle singole domande e affastellando segni incoerenti.

Oggi l’ambito pedonale Duomo/d’Uomo, ha nuova intensa vita sociale giovanilistica rispetto al progetto del 2001, ha forti capacità magnetiche legate alla movida/passiata e agli eventi occasionali o festivi, ma ha debolissima capacità di essere chiara, sobria o rappresentativa. Oscilla tra le improvvisazioni d’arredo sgangherate di alcuni locali, il famelico impoverimento di suolo pubblico da parte di variegate verande e dehors per cocktails e pizze, fino al parco avventure in palude, tra gli esili ruderi di San Giacomo. Ieri sono atterrate le ultimissime tristissime panchette che sembrano prese e messe a dimora per una piazzettina qualsiasi.

È vero “les jeux sont fait, rien ne va plus”, siamo a fine mandato di una Amministrazione ma i lasciti sull’uso e il progetto dello spazio pubblico ce li portiamo dietro da anni senza risolverli.

Strano costituire adesso un Comitato Consultivo diretto alla valutazione di sculture ed altre opere d’arte da collocare sul suolo pubblico, quando visti i fatti sembrerebbe che dovremmo costituire preventivamente pure un comitato consultivo per mettere 30 panchine senza che sembrino messe lì da una lepre pazza.

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