“Quando si sollevano le gonne della città, ne vediamo il sesso” (Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di lei )
Se ripercorro all’indietro il mio blog sembra che ho occhi e parole imprigionate da sempre nel recinto di Piazza Cairoli, vorrei parlare d’altro ma sempre lì ritorno. Mezzo secolo e più di vita mi hanno costretto a lasciare aperti i conti con quella forma di piazza-non-piazza della città moderna, da cui tutti i cittadini per ius sanguinis o ius soli sono passati, l’hanno attraversata, ne hanno avuto un’immagine, una percezione o un food adventure
Vedendo il paesaggio arboreo scotennato e scapitozzato di Piazza Cairoli voglio usare liberamente (e anche funambolicamente) un concetto e che si trova negli Scritti e pensieri sull’Arte, di Henry Matisse, ma secondo me è utile per capire e per vedere;
“…il disegno dei vuoti lasciati intorno alla foglia conta tanto quanto il disegno della foglia stessa….”
Questo per dire che cosa? Che al di là della collezione infinita dei torti botanici inflitti negli anni alle creature arboree della nostra città, e ora che per ragioni “curative” si va giù pesanti azzerando fronde e i rami, si allarga il cono di luce sulla scena e non si può più dire non avevo visto; appaiono cose che erano nascoste e ciò che si vede della città sul fondo tra i rami nudi è importante al pari delle foglie sparite e dei rami ghigliottinati.
Con parola messinese esaustiva, diremmo che le cose erano “cummigghiate” (erano coperte)
Si sa che nel malaffare si cummogghiano le cose da non vedere, le cose losche, si cummogghiano gli imbrogli, le cose inguardabili. Nei corpi umani si cummogghiano le cose che appaiono come bubboni, le deformità o le oscenità; in ambito urbano a volte gli alberi dimenticano di essere lì per ragioni ecologiche e qualitative e aiutano il camouflage per non vedere i palazzi brutti o quelli sfondati e ammalati. Le piante costruiscono, come a Piazza Cairoli, un tetto inviolabile, una coperta a trama fitta sopra i passanti. La coperta vegetale ha aiutato così a non vedere la decomposizione delle facciate, le superfetazioni dei balconi chiusi, le baracche della buona società costruite in brutta forma come eczemi sulle terrazze di Cairoli, le variegate forme di abbaini, i tendoni in plastica, e le aggiunte di ogni tipo, ognuno secondo le proprie necessità. Da parte di chi ha fatto nel tempo quelle costruzioni o prodotto abbandoni di costruzioni, non c’è stato nessuno orgoglio o interesse alla rappresentazione urbana, forse solo l’eloquente rappresentazione dell’indole predatoria o della sciatteria indolente.
Questi sono giorni in cui tutti stanno a indignarsi per quelle forme d’albero che da un po’ di giorni gridano e appaiono come dita deformate da un brutto male e alzate disperate al cielo, ma nessuno si indigna per quelle permanenti e spesso brutte architetture a volte nate già sconce, a volte alterate persino in peggio nel corso degli ultimi 30 anni.
La piazza del bel tempo che fu e di cui parlano i tanti nostalgici è collegata sempre al concetto domestico di salotto, esterno alla casa ma pur sempre il salotto, quello buono. Come accade nell’immaginario nel salotto, quello che importa non è la bellezza dello spazio ma il tappeto, il centrino, al massimo il divano e le poltrone, i mobiletti inutili o le chincaglierie. Nessuno si chiede perché alcuni edifici come quello progettato da Vincenzo Pantano (ex magazzini Siracusano), per ferite e stato di salute sembrano essere a Beirut, o perché il già modesto edificio dove si localizzava il famoso bar Irrera (quello glorioso dei tavolini), resta sempre modesto o perché altri edifici sembrano più da nascondere sotto il tappeto del salotto piuttosto che da mostrare o ancora perché negli anni novanta portarono al centro del salotto un grande barbecue con gambe troppo grosse.
L’invaso urbano della Piazza Cairoli forse è un po’ una metafora della messinesità, intorno al suo farsi e disfarsi continuo, al suo riconfigurarsi decennale sta la smania lenta dei suoi cittadini, quella che “mummurìa” (borbotta) sempre. Tutto accade lì mentre la città è altrove. Luogo di anoressia architettonica e bulimia oggettistica, luogo in cui cambiare spesso vestito, sculettare per qualche giornata non lasciando nulla di duraturo.
La piazza non piazza è sempre oggetto di attenzione/ossessione, non ha mai raggiunto una forma stabile, sempre pronta a ingurgitare arredi, disegni di tappeti pavimentati, piantumazioni lievi o boscose, oggetti di ogni design, lampioni di tutte le fogge. Gli alberi poi li hanno piantati come se la foresta densa dovesse rosicchiare le forme rigide degli isolati della scacchiera urbana, così negli anni gli alberi incontrollati nella loro natura e nella loro crescita si erano riempiti di chiome compatte, tronchi nodosi, altezze tarchiate. Poi un giorno vennero tagliati, arrivò la luce, si sollevarono le gonne alla città e se ne vide il sesso.
Siamo sicuri che la poesia ci può aiutare, quella della messinese Jolanda Insana per esempio:
“la vita non ha foglie?
e sì che tocchiamo terra
e non puoi posare i piedi sui denti della sega
tenendo in mano l’incensiere e la scacchiera
(…)
la vita mette nuove foglie
ma tu continui a fabbricare e fabbricare memorie
per farne cuscini di pietra.”
Quanto è vero, architetto … quanto è vero … Grazie, per questo e per tanti altri suoi spunti