Gli incendi hanno fatto parlare, gridare, scrivere e accusare. Siamo tutti pianificatori ambientali, conosciamo le gestioni forestali e i programmi regionali, discutiamo sulle reti natura 2000, le “zetapiesse”, i soprassuoli, i finanziamenti europei, i piani di azione locale, i Gal. 

Esperti in protezione civile, invochiamo la protezione militare, arrivano i nostri non arriva nessuno, c’ero e ho visto, non c’era nessuno, eravamo abbandonati, allarme, panic no panic.  La sicurezza, gli eroi, i lavoratori, l’economia del rischio, gli striscioni, la paura, il coro da stadio, i colli sono friabili, le conifere ardono, il sottobosco non è controllato, ci sono le mafie e poi pure l’indifferenza. L’infinito carattere distruttivo e la volontà di morte.

Ogni incendio appiccato rimbalzava come l’eco di vallone in vallone, appiccato su a Calamona, risuonava all’Annunziata, correva a Giostra e poi a San Michele, poi ancora eco a Campo Italia, Casazza, Portella etc etc.

La geografia della città è stata sulla bocca di tutti, la forma del territorio pure, perché a ben pensarci Messina più di tante altre è una citta geografica, ha proprio forme, strutture e sistemi di colli, bacini fluviali, valli, mari, pizzi e calanchi, ma anche diffusi sistemi insediativi di piano, di colle e di pizzo che sembrano un atlante didattico. Sappiamo pure che nel pensare comune la geografia è per antonomasia una disciplina scolastica neppure tanto considerata. Fuori da scuola la geografia è vissuta come un’illusione, un gioco, una vacanza, una scienza mnemonica e fantasiosa. Eppure dall’intuizione di un libro di Giuseppe Dematteis sappiamo che la geografia è anche una metafora che ci consente parlando di una cosa di intenderne anche altre, senza geografia è difficile parlare degli umani. Ogni incendio si è sviluppato in una stanza territoriale diversa, perché ogni fiumara e i vari compluvi costruiscono a Messina stanze diverse, ogni valle ha i suoi villaggi che raramente hanno percezione e conoscenza degli altri villaggi. Affacciarsi da una finestra o da un’altra può far vedere fiamme infernali, flebili fumi o pacifici panorami.

La citta geografica è questa, con la sua forma diversa non riassumibile se non dall’alto dei voli o in parte dallo Stretto di mare, lo Stretto luogo fisico che permette di vedere, allineare e fare contare tutti insieme i fuochi degli incendi sui valloni, i compluvi e sui pizzi; vederli di qua e di là delle due coste come in un’impazzita Fata Morgana incendiaria. Questa forma variegata della nostra città geografica è fatta di stanze territoriali, spesso non comunicanti; stanze non comunicanti tra di loro che insieme alle terribili e storiche calamità,  forse spiegano un po’ la difficoltà antropologica di fare comunità anche di fronte alle difficoltà, solo l’eco comunica qualcosa ma lo fa in maniera alterata. Non ho certezza che la geografia di Messina rimarrà sulla bocca di tutti anche dopo aver spento gli incendi, eppure penso che la forma del territorio e delle città andrebbe conosciuta da tutti, somministrata in vari modi, un po’ come, l’acqua, l’aria, il cibo e l’amore. Ma anche  raccontata civilmente e scientificamente tutti i giorni della vita. Per questo non sapendo nulla di botanica provo  a raccontare un’immagine postuma di un albero defunto per il fuoco:

 – L’estate brucia e le curve mi fanno risalire i colli sopra la città. L’estate brucia e porta via quello che non vorrei. Sono al trivio della portella Castanea, lì tra la risalita, la continuazione e la svolta, sta conficcato in terra un palo nero con alcune braccia a forcella; l’albero di prima è morto crocifisso, è stato deposto e sepolto dal fuoco, quest’albero come nel quadro di Sibiu di Antonello da Messina è un palo teso e un tizzone spento, quest’albero come nel quadro di Anversa di Antonello è un legno spoglio per issare carne.

Quello che vedo è solo questo ramo combusto, nero come pece, morto come un morto, e da cui sono svaporate le foglie ed è stata risucchiata la linfa.

Lo sfondo azzurro, impietoso per la sua bellezza, accompagna la figura, la porta via dalla natura e la sposta nell’accidentale luogo delle cose artificiali: tra cielo e terra si è infilzato un palo nero, senza nessun corpo santo e ladrone fissato e legato, ma con uno strano miracolo intorno alle sue braccia monche che prima erano vegete.

La chioma rinata per astrazione si aggrappa ai rami in una nuvola bianca lattiginosa e densa, apparizione risorta tra cielo e terra.

 Il tizzone nero ha corpi umani contumaci e una nuova improvvisa surrealtà.

 Il tizzone è solo al trivio, tra la risalita, la continuazione e la svolta; non c’è più linfa ma la sua nuova chioma di nuvole è labile e poetica e allude a una vaga possibilità. 

L’infinito carattere distruttivo degli uomini si accompagna anche a un infinito carattere costruttivo degli uomini, quello che inventa anche nuove identità, quello che 100 e più anni fa anni immaginò un progetto di lunga durata progettando la foresta di Camaro o immaginò la scelta monotematica delle alberature conifere dei colli piantumando uno ad uno i piccoli alberelli. Chi progettò l’idraulica e la botanica dei colli, e tra questi Leone Savoja e Camillo Puglisi Allegra e poi gli anonimi forestali,  dalla fine dell’ottocento fino agli anni trenta, fece un progetto di lunga durata, un progetto senza la spinta narcisistica del risultato immediato e della soddisfazione della costruzione compiuta. Adesso che il risultato c’era, di nuovo in parte occorre ricominciare. 

Dal blog, https://corpodellecose.wordpress.com

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